I Quattordici Giorni

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    Il Buoi oltre la Siepe

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    All'ultima domanda di Gallaway, Regulus scoppio' a ridere. Una risata forte, non adatta al suo cognome e che gli avrebbe fatto beccare un bel ceffone sui denti da parte di sua madre, da piccolo. Una persona del suo rango, infatti, doveva al massimo ridacchiare, e sopratutto non mostrare la bocca. Ma una domanda del genere poteva provocare solo quella reazione, anche se non c'era alcun divertimento nel suono, era proprio impossibile percepirlo. Era una risata amara, piena di vergogna.
    "E cosa posso aver fatto?" Chiese di rimando. "Un Turk in meno o in piu' non fa di certo la differenza, quanto ci metterebbero a eliminarmi in silenzio? Sanno che so, certo. Mi hanno beccato in pieno a curiosare e mi hanno giurato al silenzio." Tseng, quanto meno, aveva fatto una faccia... era chiaro che quel piano non lo aggradasse come doveva mostrare. "Fossi solo..." Regulus esito', pensando ad Harry. "Fossi solo, proverei di certo ad agire. Ma non posso. Ho un bambino a carico, Comandante Gallaway. Se morissi ora, o in missione, avrei dei colleghi che se ne occuperebbero e gli darebbero una vita dignitosa e le giuste cure: di questo me ne sono assicurato." Impossibile avere un f-nipote con se nella sua linea di lavoro senza assicurarsi cosa succederebbe se. "Ma se dovesse essere la Shinra a sbarazzarsi di me, ho il timore che le strade dei sobborghi, persino nelle nuove condizioni, sarebbero il male minore. Non ho alternative se non il silenzio."
    "E anche a dar una soffiata anonima al pubblico, sempre se non la rintracciassero a me immediatamente..." Perché sarebbe stato il primo sospettato, ovvio. "Ha idea di cosa succederebbe? La citta' si sta riprendendo da un evento disastroso. La Shinra finalmente sembra voler mettere da parte la guerra e pensare al pianeta... si scatenerebbe il caos più totale. E Fastus ballerebbe sopra di esso."
    Sospiro', andando a massaggiarsi la fronte con aria stanca. "Ha ragione: uno dei mali maggiori non è il massacro, è il sorriso di chi lo ordina con un veloce decreto. Facile arrestare e condannare il serial killer che hai beccato con le mani insanguinate, molto di meno incastrare un politico."
    Fastus era... un discorso a parte. Una via di mezzo: con le mani insanguinate, davanti a tutto e tutti, ma con la lingua affilata di scuse e giustificazioni. In molti si chiedevano perché, con tutto quel potere, non avesse ancora conquistato l'intero universo: Regulus pensava che fosse perché voleva assicurarsi di averne daa sua parte prima il piu' possibile.
    "Non so nemmeno chi dei due sia peggio." Ammise. "Fra Cutler Beckett e Shinra sr, ovviamente. Fastus è su un gradino diverso."
     
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    Non si era aspettato certo che il suo interlocutore scoppiasse a ridere; si sarebbe voluto offendere o indispettire, ma capiva la ragione dietro quella reazione così esagerata e poco attinente con tutto ciò che lo aveva visto fare prima. Una persona così posata e tranquilla che rispondeva in quel modo ad una domanda aveva più significati di quanto sembrasse. E quel tipo di risata, così sguaiata e innaturale, era più piena di derisione per chi la faceva che per chi la subiva. Non sarebbe nemmeno stato necessario aggiungere molto altro per capire che, anche se avesse avuto davvero la possibilità di fare qualcosa, quell'uomo aveva le mani legate.
    Lo spiegò lui stesso subito dopo: aveva un bambino a carico e il lavoro che svolgeva era già pericoloso così com'era. Se si fosse azzardato ad andare contro la ShinRa, quel bambino sarebbe stata la prima arma che avrebbero usato contro di lui; e a quel punto, le sue opzioni si sarebbero ridotte ad una sola - capitolare e accettare qualsiasi punizione, sperando che in tutto questo non torcessero un capello al bambino. Una situazione complicata e apparentemente irrisolvibile. Evan incrociò le braccia ascoltando in silenzio la sua spiegazione, un velo di cupa amarezza ad adombrargli il viso mentre parlava.
    Tuttavia non poteva fare a meno di notare quanto fossero ristrette le sue vedute. C'era qualcosa, secondo Evan, che quell'uomo non stava capendo del mondo in cui viveva, e sottovalutava parecchio l'impatto che mostri come Fastus o come Shinra avevano sulle persone. Lo mostrava la stessa Port Royal, dove gli abitanti sembravano d'accordo con Cutler Beckett solo in apparenza e in realtà cercavano sempre un modo per mandare avanti le proprie esistenze senza la sua costante e ingombrante interferenza. Beckett era un uomo crudele di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza se fosse uscito di scena, esattamente come Shinra, padre o figlio.
    "Mi perdoni, ma lei parla come qualcuno che non conosce granché le persone." diede voce ai propri pensieri, ma non c'era rimprovero nella sua voce. "Dalle sue parole, mi viene da pensare che lei non sia molto abituato a mettersi nei panni degli altri, all'infuori di quelli che potrebbero rappresentare un problema per la ShinRa. Fa bene a preoccuparsi per suo nipote, ma..." gli fece un sorriso conciliante. "Se questa guerra ci ha insegnato qualcosa è che non siamo soli, nessuno di noi. La ShinRa non oserebbe fare niente contro Radiant Garden, e potremmo difendere noi il bambino. So che la mia insistenza sembra assurda e immotivata." aggiunse, incrociando le braccia.

    Un pugno di soldati stava ridendo e scherzando lontano da loro, le voci abbastanza forti da essere udite persino da dove si trovavano. Erano spensierati, ignari che presto o tardi sarebbero stati mandati a morire contro dei pirati o contro le altre potenze che dominavano l'oceano. Così speranzosi, così disperatamente bisognosi di guardare ad un futuro dove fossero diventati vecchi e sdentati, con una brava moglie e qualche figlio. Lui, Paul e Nate non erano tanto diversi all'epoca. Anche loro non guardavano al fatto che tra loro e quel futuro potesse esserci l'invalicabile muro di una morte in battaglia, sotto le sciabolate e le fucilate dei pirati. Tuttavia, parlare con Mendoza aveva completamente ribaltato le carte in gioco e qualcosa, dentro di loro, si era risvegliato. Il modo in cui vedevano il mondo aveva iniziato a cambiare, mutando in qualcosa di diverso, e la guerra con i pirati cominciava a non assumere più solo l'aspetto di una battaglia tra bene e male, una lotta fattibile, che li faceva sentire pienamente nel giusto. Le persone che vedevano appese ad una forca o lasciate come monito tra gli scogli intorno alla Jamaica adesso avevano tutt'altro significato. Perché erano, per l'appunto, persone, e molta gente di Port Royal lo sapeva. Non tutti erano felici all'idea di ammazzare i pirati, non tutti erano a favore di tanta brutalità.
    "Coprire questa bugia è ingiusto." disse con serietà. "Lo chieda alla gente di Port Royal: sono sempre di più quelli che non vogliono Beckett tra i piedi, non importa quanto usi la forza e quanti pirati impicchi. Più mostra il suo pugno di ferro, più stringe la presa, più persone scivolano fuori da essa. Liberare i prigionieri da quel forte per lui sarà un atto sovversivo, ma per molte altre persone sarà la prima vera giustizia vista in questa città da mesi. Coprire l'Operazione Skyfall e imbellettare la ShinRa permetterà solo che queste decisioni vengano rivalutate, e portate a termine, in un futuro più o meno prossimo. Ritengo che sia ingiusto nei confronti degli abitanti di Midgar." sospirò. "Non che non comprenda le sue ragioni. E capisco anche che ha paura per suo nipote. L'avrei anch'io per mio figlio... e hanno anche cercato di rapirlo, sa. Di usarlo come ostaggio contro di me, per via della mia carica nell'Esercito di Sora, per via del mio essere un Keyblader. La cosa mi ha fatto paura, chiaramente. Non ho mai dato molto peso alla mia vita, ma sapere che Fastus sarebbe stato disposto a mettere in pericolo un bambino di un anno... e non è nemmeno l'unico." si rabbuiò. "Fastus sta usando spesso questo stratagemma." risollevò lo sguardo, fissandolo sul suo. "Coprire questo tentato massacro è come stendere un cerotto su una ferita infetta e sperare che guarisca."
     
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    Evan Gallaway non poteva considerarsi l'artefice principale delle incertezze di Regulus. A quelle ci aveva pensato ben altro: scoprire cosa faceva suo fratello in AVALANCHE, trovare e crescere Harry, sporcarsi le mani per la Shinra, trovare i suoi scheletri nell'armadio. Regulus non era di certo un ragazzino alle prime armi, innocente e schermato da tutti i problemi del mondo come quando era piccolo e ancora con la sua famiglia. Ne era completamente fedele alla Shinra, che aveva già usato per i suoi scopi personali quando ci era entrato - solo per rimanere bloccato nella ragnatela, intrappolato, la presenza di Harry una purtroppo arma a doppio taglio che lo legava all'Azienda e al Mondo in maniera irreparabile. Era un cane pericoloso, a prima vista di tutti calmo e composto, legato alla sua cuccia da collare e catena di metallo ben stretti.
    Evan aveva semplicemente in mano le tronchesi.
    "Mi piacerebbe credere che sia tutto passato." Ammise. "Che fosse solo opera del vecchio Presidente. Progetti di un pazzo ormai deceduto, che non vengono rilasciati al pubblico per non farli andare semplicemente nel panico. Ma... temo." Perché non voleva dire tale padre tale figlio, Rufus sembrava diverso e in certe cose era diverso, aveva di certo molto più rispetto per lui rispetto che suo padre, ma quanto era diverso? Quanto non avrebbe, ad un certo punto, preso in mano quei progetti con l'intenzione di attuarli?
    Spostare Harry... poteva essere sicuramente una cosa buona. Radiant Garden aveva una barriera, e non aveva inquinamento, non aveva un divario fra le classi così alto. Era pericolosa, certo, il primo obiettivo per Fastus da distruggere, ma Midgar era lo stesso e se fosse caduto un mondo, sarebbe caduto anche l'altro. Regulus non aveva contatti in altri mondi, luoghi fuori dal Sistema dove nascondere Harry. E se Radiant Garden poteva nasconderlo dalla Shinra.
    "Mi ha dato molto a cui pensare, Comandante Gallaway." Disse, sospirando. "Potrei prendere in considerazione la sua proposta per mio nipote." Non rivelo' se fosse intenzionato anche a parlare del Progetto Skyfall, al momento voleva dire gettarsi la sua intera vita alle spalle e Regulus... forse era ancora troppo codardo per quello. Non poteva deciderlo sul momento.
    Quello che poteva fare, però, era cercare di pulirsi le mani di un sangue che non aveva versato lui, ma che potenzialmente aiutava a coprire. "Se ha bisogno d'aiuto per il suo folle, scellerato piano d'azione..." Disse, giocherellando nervoso con i capelli. "Mi dica il giorno e l'ora. Non saro' li' come Turk, però, non posso rappresentare Midgar e usare le loro risorse per una cosa del genere. Sarei li solo come... come Regulus Black."
     
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    La conversazione con quell'uomo era stata illuminante. Alla fine era riuscito quantomeno a farsi dire il suo nome, non che avesse troppa importanza nel grande schema delle cose ma gli piaceva sapere con chi stava parlando; e dopo tutto ciò di cui avevano discusso, le promesse scambiate e l'aiuto che sarebbe arrivato da lui, non poteva essere niente di meglio. Dopo il loro incontro e la successiva separazione Evan era ritornato a casa ancora una volta, con la testa piena di pensieri e l'urgenza di portare il piano a compimento a dettare le sue azioni. Si era forzato a dormire un po' per recuperare le energie e conciliare nel sonno tutte le idee che si affollavano nella sua mente, faticando a prender sonno per il moto incessante dei ragionamenti e per il dolore crescente alla schiena, che gli concesse infine di chiudere gli occhi per qualche ore tra un gemito e un lamento ogni tanto. Se ne sarebbe voluto preoccupare di più, ma non era niente di diverso dal solito.
    Il fatto che quelle strane crisi fossero sparite per un po' non voleva dire che le sue cicatrici fossero guarite: una mattina si era svegliato urlando di dolore, perché Nate aveva poggiato le manine sulla sua schiena, incuriosito dall'annerirsi della maglietta. Era ruzzolato giù dal letto, rannicchiandosi in posizione fetale in preda ad un dolore improvviso e incontenibile per almeno un'ora. Era riuscito a raggiungere il telefono e chiamare Aerith, che aveva subito mandato Serena e un altro guaritore, occhialuto e se possibile anche più robusto di Gilbert, che lo aiutò a rialzarsi e lo portò in bagno. Evan era riuscito a lavarsi e cambiarsi da solo, non riuscendo a trattenere un verso dolente di quando in quando, mentre Serena era rimasta in cucina a prendersi cura del bambino e dargli da mangiare. Allarmato, aveva subito chiesto ad Aerith se ci fossero stati peggioramenti; ma era stata solo l'ennesima crisi, apparentemente più grave per l'interferenza di Nate. Evan aveva passato tutta la mezza giornata successiva a giocare con lui e stargli vicino, visto che sembrava a sua volta piuttosto scosso da quello che era successo. Per essere poco più di un neonato, di un anno scarso di vita, sembrava parecchio capace di capire cose gli accadeva intorno. Dopotutto aveva capito il volo che il suo papà se ne stava andando, le sue grida e il suo pianto gli riecheggiavano in testa. Non si sarebbe mai perdonato una cosa del genere.
    Si era alzato con ancora delle fitte alle spalle, piccoli uncini conficcati nelle carni che sembravano trascinarlo in più direzioni. Era qualcosa che veniva dall'interno, come artigli che scavavano cercando di uscire, ma adesso era solo un fastidio rispetto a qualche sera prima, quando aveva perso i sensi sul pavimento. Non aveva detto più niente ad Eileen al riguardo, non volendo farla preoccupare. Non ne parlavano, in effetti. Lei sapeva che quelle cicatrici erano una sentenza di morte, che presto o tardi lo avrebbero ucciso in ogni caso; nonostante tutti i tentativi di Aerith non c'era nulla che potessero fare per quelle macabre ali, esse continuavano a troneggiare sulla sua schiena ricordandogli dell'imminente destino. Poteva solo fare il più possibile finché gli veniva concesso, finché poteva ancora muoversi. E odiava di aver passato così tanto tempo a rimuginare e lamentarsi su quanto fosse grama la vita, quando c'era una guerra da combattere e la gente nel Sistema moriva a profusione.
    Non poteva negare che tutta quella faccenda di Port Royal puzzasse solo come una grossa distrazione, l'ennesima fuga dalla realtà. Inizialmente era stata proprio questo; eppure parlare con Regulus aveva messo le cose sotto una diversa prospettiva, all'insaputa di quell'uomo stesso. Si era reso conto che la sua presenza nel mondo che l'aveva visto nascere non era poi tanto casuale; in un certo senso era come se fosse arrivato lì proprio nel momento giusto, mentre la sua città languiva e soffriva sotto l'egida di un tiranno che faceva impiccare i suoi stessi concittadini con accuse ridicole e il mondo contemplava un baratro nel quale la caduta sembrava ormai inevitabile. Non aveva la presunzione di credere di poter salvare quel mondo tutto da solo; ma avrebbe potuto fare la sua parte, almeno quello. Lo doveva a Port Royal, a sua madre e suo padre, a Nate e Paul. Se era in grado di combattere, non poteva tirarsi indietro.
    Se solo...
    Eppure nemmeno quella rinnovata convinzione era sufficiente. La sua mano tesa rimase vuota, Aliseo non voleva saperne di tornare. Erano ormai dieci giorni che il suo Keyblade sembrava averlo abbandonato, dieci giorni che si aggirava per Port Royal come un fantasma in cerca di uno scopo per andare avanti. Si accorse del familiare processo che lo stava portando ad analizzare ogni eventualità, ogni possibilità, pur di continuare a inseguire quello scopo; si batté con forza i palmi sulla fronte, facendosi anche un gran male che lo riportò alla realtà. Le persone imprigionate ingiustamente a Fort Charles non avrebbero aspettato che lui trovasse la determinazione: andavano salvate e il tempo stringeva. Beckett poteva dare l'ordine da un momento all'altro, con buona pace di tutte le sue buone intenzioni. Si voltò verso la finestra, dove una linea dorata sorgeva dal mare. Una nuova alba, quella del giorno fatidico. Trasse un profondo respiro, alzandosi dal letto e dandosi una stiracchiata. Dovevano farlo quella notte.
    Ma c'era ancora un problema: non avevano una nave.

    Per far evadere un paio di centinaia di persone rinchiuse a Fort Charles, molte delle quali sicuramente debilitate e affaticate, non potevano solo basarsi su passaggi segreti e speranze. Anche con tutta la buona volontà di Kurama, Morgana e Regulus (sempre che quest'ultimo si fosse fatto vedere, non gli sembrava molto convinto), erano in tre a dover gestire una simile folla; non potevano far attraversare loro l'intera città, perché qualcuno di sicuro avrebbe cercato di fare i propri comodi in quell'occasione. Qualche pirata vendicativo avrebbe cercato di rifarsi su chi non c'entrava nulla e tutte le intenzioni di portare a compimento quell'impresa senza vittime sarebbero andate bellamente in fumo. A quel punto, come avrebbe potuto giustificare la sua condotta? Avrebbe coperto Radiant Garden di ridicolo e la gente di Port Royal avrebbe creduto che l'Esercito di Sora teneva di più a liberare criminali e assassini che a difendere la popolazione. La gente odiava Beckett e liberare i prigionieri senza spargimenti di sangue avrebbe fatto capire a tutti che l'Esercito di Sora non tollerava le ingiustizie, a prescindere da chi le perpetrasse. Conosceva la sua città, la sua gente. Sapeva che se il suo piano fosse andato a buon fine avrebbe tolto il terreno da sotto i piedi a quel pomposo aristocratico da due soldi. Sarebbe stata una ferita da poco; ma in un duello al primo sangue erano quei taglietti a contare. C'era anche un passaggio che conduceva alla scogliera sotto la fortezza, che scendeva fino a lì dall'armeria – in altre parole una via sicura. Tutto ciò che mancava al suo piano perché funzionasse a dovere era, purtroppo, il modo di portare via quella gente senza doverla portare fino al molo di Port Royal, dove avrebbero di sicuro trovato uno schieramento di soldati della Compagnia al completo.
    Gli serviva una nave, una catena di scialuppe, un capitano disposto ad assumersi una simile responsabilità. L'ira di Beckett sarebbe stata terribile se avesse scoperto l'artefice di quel piano. Non avrebbe potuto legare direttamente Evan all'evasione, pur sapendo che ne fosse il diretto responsabile, non senza scatenare un incidente diplomatico con Radiant Garden di cui non aveva bisogno, anche perché a quel punto avrebbe messo a nudo il fango di Port Royal davanti a tutti gli altri mondi; e questo non poteva permetterselo. Né Radiant Garden né Fastus avrebbero tollerato un uomo che impiccava bambini e questo Beckett lo sapeva; perciò era conscio che non si sarebbe mai azzardato ad additarlo, nemmeno se ne avesse avuta l'assoluta certezza. Tuttavia ciò non significava che non avrebbe scatenato tutta la propria furia sui prigionieri, braccandoli in ogni angolo dei sette mari. Gli occorreva un capitano abbastanza folle per una simile impresa, uno che non avesse paura di mettersi nei guai con Beckett e che anzi, se ne facesse apertamente beffe. Una nave veloce, che potesse portare subito quelle persone al sicuro così che potessero cominciare una nuova vita: i Caraibi erano una terra di opportunità, le Americhe erano piene di posti dove ricominciare e non tutti erano sotto l'egemonia della corona inglese. La pirateria non era per forza l'unica opzione di quelle persone, ma era inutile pensare al futuro se il presente era così incerto.
    “Dove andare...” mormorò, centellinando il suo caffè.
    Mary era impegnata quella mattina, la taverna era piuttosto affollata e non voleva disturbarla. Continuò a pensare e rimuginare, eppure sapeva che la risposta fosse molto più facile dell'apparenza; in fondo, dove si poteva mai andare se si aveva bisogno di una nave e di una ciurma, e di qualcuno abbastanza folle da mettersi contro la Compagnia delle Indie Orientali nelle sue stesse acque? Batté la tazza sul bancone, facendo sussultare Mary per la sorpresa; a occhi spalancati Evan contemplò la realizzazione, e rise.
    Che stupido. C'era solo un posto in tutti i Caraibi che ospitasse gente del genere.

    Tortuga.

    Era stato strano rimettersi sulla Gummiship: un misto di familiarità e nostalgia lo assalì e tanta fu la tentazione di impennare il velivolo verso il cielo, in direzione Radiant Garden. Guardò verso la grande volta azzurra, le mani strette sulla cloche con un desiderio crescente di seguire quel richiamo, ma ciò sarebbe significato abbandonare Port Royal una seconda volta – e proprio quando aveva promesso di aiutarla almeno in quell'impresa. Con un sospiro stanco e colpevole, Evan aveva quindi fatto rotta per Tortuga, la navetta che sfrecciava rapida a qualche decina di metri dall'acqua. La sua Gummiship era piuttosto grande, attrezzata per lunghi viaggi a notevoli velocità, praticamente un piccolo appartamento dotato di tutti i comfort essenziali. Aveva comunque scelto di vivere nella casa dei suoi genitori per ora. Era sicuro che qualcuno, come Eileen e Kattos, già avessero capito dove si trovava; del resto dove si poteva andare quando si aveva paura e si credeva di avere tutto contro, se non nell'abbraccio dei genitori? E se ciò non era possibile, i ricordi erano tutto ciò che restava. Si meravigliò che nessuno dei due fosse giunto fin lì a prenderlo per le orecchie... o a parlargli.
    Una parte di sé sentiva un comprensibile, seppur non apprezzabile, rancore verso gli altri Keyblader. Lo avevano visto crollare, accartocciarsi su se stesso come un origami bagnato, eppure nessuno di loro si era fatto avanti. Certo, tutti avevano il loro da fare, non pretendeva il loro tempo; ma non poteva esimersi dal sentirsi amareggiato e solo. Era sicuro che qualcuno si fosse accorto della sua decrescente forza mentale, della sua carenza di sonno, che mangiava meno, che non vedeva praticamente mai Nate. Non sei solo, gli avevano detto; eppure in quell'ufficio era stato solo sul serio. Solo Darian aveva cercato di alleggerire la sua mole di lavoro e pensieri, senza riuscirci particolarmente; e gli sembrava che Pitioss avesse creato un inspiegabile muro tra lui ed Eileen. Sentiva che ci fosse qualcosa che non voleva dirgli e questo lo addolorava solamente. Avrebbe voluto parlarle di più. Chiederle se stesse bene. Non ce n'era stato il tempo, né il modo, specie per via della riunione dei Keyblader e la realizzazione che sembrassero più divisi e stanchi che mai. Se l'avesse avuta davanti non avrebbe perso altro tempo con silenzi e parole non dette.
    Il vento gli sferzava il viso. Aveva impostato il pilota automatico e si era messo sul tetto della Gummiship, inspirando a fondo l'aria pura dell'oceano, occhieggiando ogni tanto piccoli stormi di gabbiani che volavano ben sopra la sua testa. Stese una mano, sentendola fendere l'umidità di una bassa nube, intorno a lui nient'altro che la distesa inamovibile e increspata del grande blu che circondava i Caraibi. Sbuffò un sorriso, trepidante come un bambino al primo viaggio per mare, e si alzò in piedi con lunghi respiri soddisfatti; niente terra intorno a lui, nessun nemico. Nessun assalto improvviso da parte di qualche Heartless vagabondo o seguace di Fastus. Era solo, solo in mezzo a quel nulla che poteva ucciderlo come lasciarlo stare, solo lui e l'immensità dell'oceano. Il vento era forte, ma non abbastanza da farlo cadere giù; non era come sulla coffa durante quella tempesta, quando aveva scoperto l'amore per il mare.
    Quella solitudine non gli faceva paura. Non lo faceva sentire rancoroso o indispettito. Era una solitudine diversa e pacifica, che riempiva i polmoni e svuotava la mente, facendolo sentire quasi inebriato da quella sferzante brezza marina e dal silenzio interrotto solo dal ronzio del motore della Gummiship. Si chinò sul tetto della nave, conscio che potesse sentirlo. “Più veloce!” la esortò. In risposta al suo comando, la Gummiship accelerò notevolmente, tanto che per poco rischiò di ruzzolare giù, ma riuscì a tenersi ad uno degli appigli senza potersi togliere un sorriso emozionato dalla faccia. Per un attimo, in quel blu immenso senza fine, non era più il Comandante di Radiant Garden, non era il Guardiano della Luce, non esisteva più niente all'infuori di lui, del mare, della sua nave. Era di nuovo nient'altro che quel mozzo un po' imbranato e dal caratteraccio irascibile, che si arrampicava sul sartiame durante le tempeste. Gli sembrava di sentire ancora la canapa delle corde sotto le dita, lo spruzzare e la spuma delle onde sul viso mentre la nave beccheggiava in mezzo ad esse fendendole come un coltello.
    Azzardò a togliere le mani dall'appiglio, una gamba flessa in avanti e una tesa all'indietro per mantenere l'equilibrio, e se le portò a coppa ai lati della bocca. Si protese in avanti, e urlò.
    Lì in mezzo all'oceano solo le acque potevano sentirlo. Il mare, amico e nemico di qualsiasi marinaio, suo più grande confidente e traditore, era una compagnia costante per tutti. E ad esso Evan urlò, pervaso da una gioia incontenibile e dal bisogno di liberare, ancora una volta, tutto il livore che si ammassava dentro di lui come pesi sul petto. Un linguaggio che solo loro potevano capire, che l'oceano ascoltava nel suo rombante silenzio; “Giù!” ordinò alla Gummiship, e spuma e acque roboanti si sollevarono al passaggio della nave, rendendola lucida come un proiettile grigiastro. Evan rise, solleticato dalle acque fredde, per poi ordinare di nuovo al velivolo di risalire. Spalancò le braccia, godendosi ancora quell'attimo di respiro.
    In quel momento era solo Evan, nient'altro. Un po' gli era mancato esserlo.

    Il viaggio era durato poco. Tortuga si estendeva sotto la sua Gummiship sotto forma di una distesa di case sghembe e dalla dubbia architettura. A ridosso dei moli, una folla di taverne e locande ospitava dozzine di marinai già ubriachi a mezzogiorno. Qua e là si potevano ancora scorgere i resti delle cabine e delle postazioni degli ufficiali portuali, rimasugli di un periodo in cui si sperava di trasformare Tortuga in un porto commerciale onesto e degno di tal nome; ma i pirati non volevano saperne e avevano fatto loro quel posto. Il verbo di Beckett non arrivava alle loro orecchie, non vedeva una singola nave della Compagnia delle Indie Orientali, ma vedeva diverse navi ben messe e sorvegliate da guardie preoccupate. Non c'erano solo pirati a Tortuga; qualsiasi commerciante del mare passava da lì per arrotondare i guadagni, vendendo o procurandosi beni che altrove non avrebbe potuto.
    Per essere un covo di lestofanti e tagliagole, Tortuga era stranamente bene organizzata. Alla maggior parte dei pirati bastava essere lasciati in pace; se nessuno si metteva di mezzo tra loro e il boccale, non reagivano nemmeno alle provocazioni se non quando erano abbastanza ubriachi e su di giri da cercarsi la rissa. C'erano zone da evitare completamente se si aveva cara la pelle, la borsa o entrambe le cose, e altre che potevano sembrare quasi vivibili e rispettabili. La zona del porto era ovviamente un vero e proprio letamaio, non solo in senso metaforico; non appena mise il naso fuori dalla Gummiship, un lezzo nauseabondo di urina, sterco, vomito e chissà cos'altro gli aggredì le narici. Quell'odore lo ricordava bene, anche troppo. Era stato a Tortuga solo una volta, una lunga settimana durante la quale era rimasto sulla nave di Mendoza da solo, deciso a non scendere. Le numerose provocazioni del resto della ciurma, che volevano vederlo ubriacarsi o cercavano di pungerlo nella virilità dicendo che lì sarebbe diventato un vero uomo, lo avevano spinto per ripicca a non scendere dalla coffa per giorni – sgattaiolava solo a sgraffignare qualcosa da mangiare quando nessuno guardava e poi tornava di sopra. Questo ovviamente accese tutta una serie di ulteriori provocazioni sul suo conto; la verità era che era terrorizzato da Tortuga.
    Non solo perché era un postaccio malfamato e pieno di gentaglia poco raccomandabile, anche ben oltre quello che sentiva dire a Port Royal; l'idea di bere chissà cosa nelle taverne lo spaventava, soprattutto dopo aver sentito dire dal vecchio Sadman che chi si ubriacava troppo e sveniva, se gli andava bene, veniva gettato in mezzo ai maiali e ricoperto di ridicolo, merda di maiale e fango; ma se gli andava male, magari perché aveva fatto irritare la persona sbagliata, allora veniva gettato in pasto ai maiali dopo essere stato fatto a pezzi. Non aveva idea se le parole del vecchio fossero solo dicerie e storielle da raccontarsi mentre si consumava la sbobba sul ponte, né voleva scoprirlo; ma al pensiero che quelle persone, di cui ancora si fidava poco, volessero farlo ubriacare per poi fare di lui chissà cosa, si era rintanato sulla coffa senza neppure sognarsi di scendere. Era giovane e ancora troppo impressionabile, in fondo.
    Quanto alle donne, non poteva negare che ce ne fossero anche di molto belle, ma aveva evitato accuratamente di guardarle. Lo prendevano spesso in giro anche per le sue romanticherie, ma sognava ancora di trovare una ragazza a posto e sistemarsi, anche se era un pirata; non voleva credere che il massimo di amore che potesse ricevere nella vita fosse qualche minuto con una delle donne del porto. Ogni tanto, quando dava un'occhiata fuori dalla coffa, ce n'era una che gli faceva sempre l'occhiolino o gli faceva cenno di scendere; lui negava vivamente ogni volta. Era pure salita sulla nave un giorno, a quanto pareva perché pagata da Mendoza, e mentre aspettava che il capitano arrivasse gli aveva chiesto di parlare. Con sua sorpresa, non era sembrata intenzionata a provarci oltre, ma gli aveva chiesto comunque perché continuasse a rifiutare facendo strani discorsi che all'epoca non aveva la capacità di capire e azzardando anche l'ipotesi che forse potessero piacergli gli uomini (e aggiungendo che se voleva, qualcuno a Tortuga c'era). Lui le aveva risposto, con tutta la semplicità e l'educazione che gli avevano impartito, che non era sua intenzione trovarsi una donna a quel modo – e che se diventare un uomo significava appartarsi con una donna e usarla per il proprio piacere, preferiva di gran lunga non diventarlo mai.
    Lei aveva riso, ma non si era sentito umiliato né ferito. Sembrava quasi sollevata. Gli aveva messo una mano sulla spalla e gli aveva detto che le sarebbe piaciuto ci fossero più uomini come lui al mondo – aggiungendo però che in quel caso sarebbe morta di fame. In risposta, Evan aveva detto che se ci fossero stati più uomini come lui al mondo lei non avrebbe mai avuto bisogno di un lavoro del genere in primo luogo; ma qualsiasi cosa volesse rispondergli fu interrotta quando arrivò Mendoza, che gli riservò pure un'occhiataccia come se volesse rubargliela. Lei, come trasformatasi completamente, si era avviluppata al braccio del capitano rabbonendolo con moine e parole gentili, assicurandogli che quel bravo garzone le stava solo tenendo compagnia con una buona chiacchierata... e aggiungendo che aveva bisogno di un uomo, non certo di un cucciolo chiacchierone. Evan aveva provato un moto di stizza, ma aveva capito il perché di quelle parole; era molto più credibile che lei avesse scelto il potente capitano veterano Mendoza. Nessuno avrebbe creduto che Evan l'avesse rifiutata per una morale che nessuno in quella ciurma voleva comprendere, anzi, avrebbero creduto che volesse soffiare la donna al capitano nonostante a lui non interessasse affatto. In fondo, quando alla partenza aveva detto e ridetto che non era mai sceso dalla nave e non aveva né bevuto nulla né aveva anche solo sfiorato una donna, in molti gli avevano dato dell'eunuco, dell'idiota o addirittura del sodomita. Per loro era totalmente inconcebile.
    Ai tempi si arrabbiò parecchio e ci furono diverse scazzottate sul ponte per difendere il suo onore; c'erano così tante cose che non capiva di sé, all'epoca. Col senno di poi era solo felice di aver atteso. Fare l'amore con Eileen era stato uno dei momenti più meravigliosi della sua vita, e il fatto che per entrambi fosse stata la prima volta lo aveva solo reso più bello. Be', per lui lo era stato. Aveva sempre temuto di rivelarsi una totale frana, di sbagliare tutto e deluderla, magari anche di fare male alla sua donna quando fosse capitato; ma di certo non le avrebbe chiesto nulla sulla questione. Si era solo voluto sincerare che stesse bene, quella volta, non le avrebbe certo chiesto un voto o una considerazione di quel tipo. Gli era bastato sapere di non averle fatto male e che quel momento fosse stato speciale per entrambi.
    Eileen...
    A ripensare ai suoi baci, al suo profumo, alla soffice sensazione dei suoi capelli tra le dita, ebbe un altro moto di nostalgia. Di nuovo, l'istinto di puntare la Gummiship verso il cielo e partire alla volta dello spazio era incontenibile. Voleva solo riabbracciarla. Se poi lo avesse fulminato e massacrato di pugni dopo lo avrebbe capito, ma almeno sarebbe potuto essere di nuovo al suo fianco.
    Sospirò e balzò giù dalla nave, facendola poi alzare di quota in mimetizzazione. Nella strada verso Il Guercio Sorridente, una delle taverne più grosse della zona, non mancò di vedere marinai impegnati a vomitare qua e là, gente litigare a bottigliate, qualcuno che giocava a dadi o fumava dalla pipa, donne incipriate e agghindate grossolanamente che attendevano qualche cliente. Evitò accuratamente il contatto visivo con chiunque, non sapendo cosa aspettarsi e non volendo finire in uno scontro; una donna cercò di attirare la sua attenzione, com'era ovvio. Non perché fosse incredibilmente bello o affascinante, non aveva mai neppure pensato a come potesse essere visto il suo aspetto dall'esterno; ma era meglio vestito di molta di quella gente e questo significava, nella loro testa, che fosse qualcuno degno di nota. Sentiva anche qualche altro sguardo su di sé e lui ostentò una gran calma, avanzando a passi lenti e sicuri verso la taverna. Se si fosse messo le mani in tasca o avesse stretto le spalle, se avesse dato un vago cenno di paura o preoccupazione, avrebbero creduto di avere davanti una preda; il problema non era smentirli. Voleva proprio evitare di doverci pensare, l'ultima cosa che gli serviva era una rissa quando ancora non aveva trovato ciò che stava cercando.
    Aprì la porta del Guercio, trovandosi di fronte ad una grossa stanza piena di tavolini circolari. C'era poca luce, che filtrava giusto dalle finestre semichiuse. Massicce volute di fumo formavano un nebbione che andava a innalzarsi fino al soffitto, rendendo difficile vedere i candelabri spenti o persino quanto fosse effettivamente alta la stanza. Strizzò le palpebre, gli occhi già gli bruciavano. L'odore di alcol si mescolava a quello del fumo, alcol scadente dall'odore acre. Il pavimento di assi di legno era rigonfio e bitorzoluto. C'erano molte persone, uomini e donne di varie provenienze. La sala era immersa in un gran chiacchiericcio e il bancone, sulla sinistra, era affollato di boccali vuoti e pieni, un paio di cameriere facevano avanti e indietro per i tavoli e a volte salivano su per le scale, dove sembravano esserci altri posti a sedere. Era davvero una taverna gigantesca, paragonata alla Sirena, ma aveva l'impressione che se avesse portato Mary in un posto simile sarebbe svenuta, che fosse per l'odore, l'igiene o la scarsa moralità degli avventori. Si irrigidì un paio di volte nel vedere un paio di marinai allungare le mani sulla cameriera più giovane ed evidentemente a disagio; non era qui per questo, non poteva sperare di risolvere i problemi del mondo intero. Ma il problema si risolse in fretta da solo, quando la cameriera si voltò di scatto e tirò un colpo col piatto del vassoio sul naso dell'uomo, che fu preso in giro dai compari a suon di imprecazioni e ringhi sommessi.
    Esitò. Cos'avrebbe dovuto dire per attirare la loro attenzione? Non aveva neanche un soldo con sé, perciò non poteva sperare di assoldarli direttamente. Quanti avrebbero accettato una promessa di venir pagati il prima possibile? Lui non l'avrebbe fatto, questo era poco ma sicuro. Sospirò, avvicinandosi al bancone con un'espressione torva. La puzza di alcol gli dava la nausea e si sarebbe guardato bene dall'ordinare qualsiasi cosa in quel posto, ma la sua presenza se non altro parve far avvicinare subito l'oste, un ometto con una canottiera sdrucita, un pancione prominente e la pelle scura. Sul suo braccio era ben visibile un marchio che però non riconosceva: doveva essere uno schiavo, liberato o forse fuggito. Aveva una folta barba e sembrava solo poco più alto di lui, la testa completamente pelata.
    “Ehi, ragazzo.” disse con una voce profonda e raspante. “Ti porto qualcosa?”
    Lui negò. “Ho bisogno di un capitano.” Tanto valeva vuotare il sacco. Le taverne erano un buon punto dove cercare informazioni e a volte gli osti sapevano qualcosa in più o fungevano da intermediari per i capitani.
    L'uomo si accigliò. “Per?”
    “Ovviamente per contare le penne ai gabbiani.” Evan fece una smorfia a cui l'oste rispose con un'occhiataccia. “Un lavoro.” specificò. “A Port Royal.”
    Quello fischiò, sorpreso. “Di che lavoro si parla? Port Royal è pericolosa anche per i pazzi, oggigiorno.”
    “Già.” annuì lui. “E a me ne serve uno. Ma non pazzo abbastanza da ammazzare la gente a caso.”
    L'oste lo fissò con una smorfia. “Sei nel posto sbagliato.”
    “O forse in quello giusto.” rispose Evan con un sorrisetto. “Un lavoro facile facile, toccata e fuga senza sparare un colpo. Una vera pacchia.”
    “Sembra troppo bello per essere vero.”
    Una donna con una lunga treccia di capelli rossi gli rispose dall'altra parte del bancone, facendogli un cenno. Aveva un bel viso a forma di cuore dalla pelle chiara, labbra carnose, occhi glaciali con un luccichio curioso. Era coperta da un lungo cappotto che doveva essere stato bianco prima che polvere e salsedine ne aggredissero il colore originale; fece scivolare il proprio boccale vuoto verso l'oste, che senza ulteriori esortazioni lo riempì subito. “Nessun lavoro è sicuro, men che meno a Port Royal.” continuò la donna.
    “Ha un faccino da così bravo ragazzo.” disse un'altra donna dalla pelle più scura, con un sorrisetto divertito. Portava una bandana blu che le teneva i capelli tirati all'indietro e una casacca bianca, senza maniche, che metteva in mostra braccia abbronzate e dai muscoli guizzanti. Era molto flessuosa, con occhi castani scrutatori, ed era poggiata con la schiena al bancone. “Sicuramente è uno di quei porci della Compagnia, Sarah. Direi di farlo fuori subito.” Un lungo coltello ricurvo balenò nella mano della donna, che gli rivolse uno sguardo di sfida.
    A sentire il nome della Compagnia furono in molti a irrigidirsi; Evan non perse la calma e alzò le mani.
    “Suvvia...” sbuffò. “Non perdiamo la testa. Non sto con Beckett e se mi accusate di questo potrei offendermi. Sono tornato da poco a Port Royal, solo per vederla invasa da un idiota che impicca bambini.”
    “Tornato?” ripeté Sarah. “Tornato da dove? Direi più che altro perché, ma non hai un'aria troppo intelligente. Magari sei tornato apposta.”
    Fece una smorfia contrariata, anche se aveva ragione. Era tornato volontariamente a casa, sebbene a sua discolpa si potesse dire che non aveva la più pallida idea della situazione in cui si era andato a cacciare. “Vengo da Radiant Garden.” disse, ma il nome non sembrò familiare a molti di loro. Curiosamente fu proprio la donna con la bandana a drizzare le orecchie a sentirlo. “Sono stato lì per anni. Decido di tornare a casa e trovo questo... impestato bastardo che ammazza la gente della città sotto accuse ridicole. Mentre parliamo, sta preparando almeno duecento persone al patibolo.”
    Si levò un brusio dalla stanza. Molti pirati erano stati colpiti dalla Compagnia in qualche modo: la crociata di Beckett, come temeva, aveva sollevato gli animi dei pirati e li stava preparando ad una guerra. Mancava solo l'ultima spinta, che sarebbe di sicuro venuta dalla Fratellanza, e in un attimo le acque dei Caraibi sarebbero diventate un territorio di guerra ancor più di quanto già non fossero. Un vecchio pirata scheletrico si lamentava di un attacco dell'Olandese che aveva sterminato tutta la ciurma della nave dove stava; un paio di soldati caduti in disgrazia piangevano un tentativo di ammutinamento di Davy Jones che era finito in una ventina di fucilieri uccisi e semplicemente buttati in mare senza alcun riguardo. Una donna diceva di essere fuggita dal cappio solo perché aveva trovato il modo di defilarsi da una città in tutta fretta, prima che i soldati della Compagnia venissero a prenderla. Un uomo curvo su un boccale vuoto disse, con voce rotta, che avevano preso suo figlio, un bambino di nemmeno otto anni, e ad Evan si gelò il sangue nelle vene. Alle parole di quell'uomo cadde un silenzio pesante, come una palla di cannone gettata nell'oceano.
    “Dovevano prendere me. Sono scappato.” diceva ancora l'uomo. “Avevo la sua mano nella mia. Poi mi è scivolato... e lo hanno preso quelli lì. Mi chiamava...” mandò giù quello che rimaneva di un altro boccale. “Lo avranno già impiccato ormai.”
    “Era...” disse Evan. Sentì gli occhi delle due donne su di sé, che lo trapassavano come stiletti. Gli occhi di tutti gli avventori erano puntati su di lui; lo stavano giudicando, pronti a rivolgergli le armi contro o accoglierlo come un amico. Sapevano essere sorprendentemente lesti a fidarsi, se le condizioni erano giuste e la persona non era troppo sospetta. “Era basso, con i capelli lunghi?” l'uomo alzò lo sguardo acquoso. Aveva la barba incolta, i capelli sporchi. “Con una camicia blu...” lui annuì. “Sono arrivato troppo tardi.” confessò, e ogni colore svanì dal volto di quell'uomo. “Volevo fermare Beckett. Gli ho urlato di fermarsi, ma non mi hanno neppure sentito. I pirati, quelli veri, stavano...”
    “Cantando la Canzone.” completò Sarah.
    L'uomo, il padre del bambino, si mise il volto tra le mani, il corpo scosso dai singhiozzi. Un pugno di pirati si affollò attorno a lui offrendogli un sostegno inaspettato; era raro, molto raro in realtà, che tra i pirati ci fossero dei bambini. Se c'erano, erano figli di qualcuno che poteva permettersi di farli girare per la nave senza timore che gli tagliassero la gola. Svolgevano mansioni umili, ma non era raro che venissero usati come inaspettati assassini; persino i soldati della Compagnia esitavano prima di sparare a un bambino, almeno prima di quei giorni. Questo permetteva a molti capitani di mandarli anche ad assassinare un ufficiale importante o di usarli come agenti in incognito, magari nel caso in cui la ciurma fosse stata sconfitta e catturata dalla Marina; il bambino di solito veniva trattato con maggior riguardo, specie se era bravo a far credere di essere stato solo una vittima delle angherie della ciurma. A quel punto doveva solo sgraffignare le chiavi, liberare la ciurma e mettersi da parte. Alcuni rimanevano a servire su una nave, altri venivano mandati in un orfanotrofio. Se il bambino riusciva ad ambientarsi nella ciurma e fare la propria parte come ogni altro membro dell'equipaggio, però, veniva trattato con grande rispetto e considerato a tutti gli effetti parte del gruppo. Evan lo sapeva bene, anche se era ormai un ragazzo e quasi un giovane uomo quando si era unito alla ciurma di Mendoza. Ma era comunque il più giovane della ciurma e dovette lavorare sodo per guadagnarsi il loro rispetto, per quel che poteva valere. L'uomo, il padre di quel bambino, doveva averlo non solo cresciuto sulla nave con il benestare della ciurma e del capitano, ma doveva anche averlo sempre trattato con orgoglio. Glielo leggeva in viso.
    “Ha cominciato lui a cantare.” disse Evan. Non sapeva quanto la cosa potesse effettivamente consolarlo, certo.
    “Ce l'ha fatta...” disse l'uomo. I suoi occhi mandavano bagliori selvaggi. “Bene. Beckett avrà una bella gatta da pelare ora. E mio figlio ha cominciato tutto! Lui e il suo demonio se ne torneranno all'inferno.”
    “Il...” Evan non riusciva a capire. Non era stato a contatto con i pirati, finora, non aveva sentito la loro versione della storia. “Jones?” fece due più due; molti lo guardarono sgomenti solo a sentirlo nominare. Per essere attaccabrighe, litigiosi e sanguinari, i pirati sapevano essere parecchio superstiziosi. “Jones serve Beckett?!”
    Aveva senso adesso. La spocchia e l'aria tronfia di quel lord da due soldi, le sue parole altisonanti, il suo sbandierare di avere l'arma definitiva che avrebbe spazzato per sempre via chiunque lo ostacolasse. Ci sarebbe potuto arrivare, ma gli mancavano gli elementi: adesso era diverso. Adesso capiva bene cosa stesse succedendo in quelle acque e perché al solo nominare la Compagnia ci fosse così tanta paura, tra gente che in passato non esitava ad assaltare i mercantili nemmeno quando il famigerato El Matador del Mar mieteva vittime a tutto spiano per il Mar dei Caraibi e oltre. E, ovviamente, era una pessima notizia. Non era tanto stupido da pensare di essere in mezzo a persone innocenti; chiunque in quella stanza aveva almeno dieci morti sulla coscienza e tutta una serie di crimini da dover pagare. Ma in quel caso specifico, Beckett era il problema peggiore. Un uomo crudele, ambizioso e senza scrupoli come lui non poteva avere un potere così grande, era impensabile e inammissibile. Se davvero Jones lo serviva, anche se non troppo volontariamente da quanto aveva capito, aveva in mano un'arma che non avrebbe dovuto possedere. A quel punto, l'unica domanda era come ne fosse venuto in possesso.
    “Come ha fatto?” chiese Evan. “Cosa può spingere Davy Jones a servire un uomo del genere?”
    “Non lo sappiamo con sicurezza.” Sarah si esprimeva con un linguaggio molto più corretto e variegato di quanto pensasse. Aveva una certa padronanza del parlare, probabilmente non era nata povera. “Ma be'... dopo che ha affondato la Perla Nera di Jack Sparrow c'è stata molta confusione in queste acque. Non solo perché era l'unica nave che potesse competere con l'Olandese in quanto a velocità e manovrabilità, ma anche perché... Jack era una specie di leggenda per i pirati. Girano così tante voci su di lui e sulle sue avventure che puoi pensare non esista nemmeno. Poi lo vedi e rimani delusa, ma non è questo il punto.” fece spallucce, e qualcuno sbottò una risata. La donna accanto a lei sbuffò.
    “Non era così male, dai.” disse con un'occhiata divertita.
    Lei la ignorò. “La ciurma della Perla ha cominciato a girare per i Caraibi già da prima che venisse cantata la Canzone, per spingere la gente a combattere contro Beckett. Tutti tranne uno.” sorseggiò dal suo boccale. “James Norrington.” Lui la guardò con tanto d'occhi; ora era il suo turno di rimanere sconvolto dall'udire un nome, specie uno tanto sgradevole e che rievocava solo brutti ricordi. Per un istante i volti di Nate e Paul gli balenarono davanti al viso. “I Caraibi hanno occhi e orecchie. In un modo o nell'altro, tutto quello che succede in queste isole si viene a sapere. E abbiamo scoperto che la ciurma di Sparrow stava cercando il Cuore di Davy Jones... Cuore che, si dice, sia la chiave per dominare Jones. Non sopporta nemmeno che lo si avvicini alla sua nave e nessuno aveva idea di dove fosse. Poi Sparrow lo trova... ma viene affondato dal Kraken con la sua nave, la sua ciurma sparisce e di Norrington nemmeno l'ombra. Solo che non è morto, è diventato Ammiraglio.” Mandò giù un lungo sorso di birra; un rivolo le scese lungo il collo, insinuandosi nella scollatura aperta della camicia e disegnandovi una linea lucida che evaporò in fretta. “Occhio a dove guardi, ragazzino.” rispose lei, notandolo.
    “Ho visto di meglio.” rispose lui con un sorrisetto; lei gli rifilò un'occhiataccia che sembrava più divertita che offesa. Il momento di leggerezza si spense in fretta. “Quello che hai detto... Pensi che Norrington c'entri qualcosa col Cuore?”
    “Sì? No?” scosse la testa. “È un bel mistero, che nessuno qui ha intenzione di scoprire. Sappiamo solo che Jones è sguinzagliato dietro ogni bandiera pirata che trova. Prima o poi anche Tortuga smetterà di essere un porto sicuro. L'unica scelta è andare verso la Baia dei Relitti.”
    La Baia dei Relitti, la leggendaria roccaforte della Fratellanza. Una città di navi arenate ammonticchiate l'una sull'altra, dove si diceva i Pirati Nobili si riunissero a consiglio per discutere del futuro della Fratellanza quando qualcosa di terribile la minacciava. La Canzone era una chiamata a raccolta. Se stavano già ripiegando alla Baia, si stava preparando qualcosa di davvero grosso esattamente come aveva detto a quel povero idiota di Beckett; era un uomo pragmatico, una qualità che Evan rispettava, ma il pragmatismo doveva anche scendere patti con cose inverosimili se esse smettevano di esserlo. In un mondo come il loro dove un tesoro azteco aveva condannato un'intera ciurma a una non-vita senza fine e dove si narrava di dee del mare imprigionate in forma umana per domare le correnti, Beckett non poteva far finta che queste cose non esistessero. Persino la Baia veniva considerata una leggenda: Evan non l'aveva mai vista, ma Mendoza sì, sebbene solo una volta. Nella sua caotica disposizione, diceva che niente era un maggior inno alla libertà della Città dei Relitti nascosta nella baia – e che era una roccaforte inespugnabile, capace di resistere ad anni di assedio.
    “Avrei tanto voluto vederla...” sospirò Evan.
    “Oh?” la donna con la bandana parve interessata. “Sei un pirata?”
    “Lo ero.” rispose Evan. “Ero sulla Tiburòn di Guillermo Mendoza, prima che venisse attaccata e affondata.”
    “Sei anni fa!” disse Sarah. “Dicevano che erano successe cose strane su quella nave, lampi di luce e turbini neri come la pece.”
    “Heartless.” disse Evan. “Creature che si aggirano per i mondi da decenni.”
    “Mondi.” ripeté Sarah. “Che mi venga un colpo Bela, non eri ubriaca?”
    “Te l'ho detto!” disse la donna con la bandana. “Ero sobria, Sarah. La tua mancanza di fiducia mi ferisce.”
    “Non farmi la recita ora.” sbuffò Sarah. Si rivolse di nuovo a lui. “Quindi la nave di Mendoza è stata attaccata da questi Heartless?”
    “Sì.” rispose Evan. Non occorreva raccontare tutta la storia. “Se sono sopravvissuto è perché sono caduto in una delle pozze oscure che usano quelle creature per muoversi. Ci ho messo sei anni a decidermi a tornare...”
    “E potevi anche non farlo.” Sarah finì il boccale, ma non chiese altro. “Queste isole sono finite. La Compagnia si prenderà tutto quanto e cannoneggerà quello che non potrà comprare. Ero già pronta ad andarmene alla Baia, ma poi sei arrivato tu.” lo guardò con un'alzata di sopracciglia. “Ben vestito e tirato a lucido come quei damerini della Compagnia, eppure con uno sguardo che potrebbe raccontare storie per giorni. Non sei il sempliciotto che sembri.” sbuffò. “Altrimenti Bela ti sarebbe già saltata addosso.”
    “Potrei ancora farlo.” rispose lei con un'eloquente alzata di sopracciglia. “Sembra uno che vuole divertirsi.”
    “Non con te.” assicurò Evan.
    “Rifiutare così una bella donna!” esclamò lei, fintamente piccata. “Cos'è, sei troppo pudico? Oppure... oh.” si portò le dita sotto il mento. “Ho capito! Forse non ti piacciono proprio, le donne. Se mi dici il tuo tipo ideale potrei anche trovarti qualcuno nella mia ciurma. Se sei schizzinoso magari prima gli diamo una pulita.” ridacchiò.
    Evan fece una smorfia, non sapendo se definirsi solo stranito, offeso o del tutto preso in contropiede da così tanta mancanza di tatto. Aveva incontrato ben poche donne pirata e sapeva che dovevano essere due volte più spietate e autoritarie delle controparti maschili, se volevano una vita tranquilla a bordo. E poi, perché ogni volta qualcuno insinuava che non fosse interessato alle donne?
    Non voleva neppure entrare in quel discorso.
    “Magari non ho fretta di mandare la nave in porto, se capisci che intendo.” le rispose. Bela scoppiò a ridere. “Come ho già detto, ho visto di meglio.”
    “Meglio di me e Bela?” Sarah lo guardò con tanto d'occhi. “Devi stare con una sorta di divinità, compare.”
    “Presentacela!” esclamò Bela. “Magari lei ha più buon gusto di te.”
    Forse fu il modo così apparentemente ingenuo e naturale in cui lo disse, ma Evan si trovò a ridere a quell'affermazione e le due gli fecero eco, esplodendo in risate limpide e divertite. Era solo un gioco che stavano giocando tutti e tre, una sorta di continuo rincorrersi senza volersi davvero afferrare. Bela stava sempre vicina a Sarah e Sarah si assicurava sempre di starle a poca distanza; e nonostante le loro battute, nessuna delle due aveva avanzato particolari pretese. Cosa di cui era decisamente grato.
    “D'accordo, basta.” Sarah mosse una mano davanti al viso, come a voler scacciare quell'ennesimo momento di ilarità. “Mi hai incuriosita, non lo nego. Quindi adesso vorrei sapere il tuo nome.”
    “Evan Gallaway.” si presentò lui.
    “Capitano Sarah Fortune.” rispose lei, con un elegante inchino. “Miss Fortune per i miei nemici.” aggiunse, con un sorrisetto.
    “Isabela de Montenegro.” disse Bela. “Ma chiamami solo Bela.”
    “Bene, Evan.” disse lei, subito con confidenza. Il suo tono era spiccio, pratico. “Ora parlami di questo lavoro.”
    Evan si decise finalmente a sedersi al bancone, conscio che ci sarebbe voluto un po'. Scosse la testa a vedere l'oste avvicinarsi per chiedergli se volesse qualcosa e lasciò che Sarah si sedesse accanto a lui. Bela si mise dall'altro lato. Poteva sembrare una situazione paradisiaca per molti uomini; il coltello di Bela continuava a volteggiare tra le sue dita con troppa leggiadria perché potesse credere che si trattasse solo di un incredibile (e non richiesto) colpo di fortuna.
    Evan sbuffò. “Accidenti, che compagnia.”
    “Si vede bene tutta la sala.” disse Sarah. “Grazie allo specchio. Abbiamo da parecchio la sensazione che Beckett abbia disseminato spie per i Caraibi e anche oltre. Vuole i segreti della Fratellanza.”
    “Tu come sai tante cose sulla Fratellanza?” domandò Evan.
    “La Vedova Ching è in cerca di un'erede.” disse Sarah. “Io sono una delle candidate. È la più potente tra i Pirati Nobili, nonché la più pericolosa... e ha molto a cuore che la sua erede abbia la stessa reputazione. E che sia bene informata e istruita.” Persino nel Mar dei Caraibi si era sentito parlare di quella donna. Era anziana, ma ancora arguta e incredibilmente astuta; aveva un fitto stuolo di alleati e nemici, fili che poteva tirare quando preferiva. Una donna tanto pericolosa che persino Mendoza, uno che le donne le trattava come nient'altro che oggetti, pronunciava il suo nome con rispetto e timore.
    “Non si sa mai dove debba finire qualche proiettile vagante.” disse Evan. Lei annuì.
    “Gli incidenti in battaglia capitano.” disse Sarah. “Non sono esattamente la favorita, però. Ci sono altre candidate migliori di me, per quanto mi bruci ammetterlo. Mal che vada, già essere stata designata mi ha dato parecchio prestigio. E ho comunque un'ottima nave e una ciurma fedele.”
    “E Rafen.” disse Bela.
    “E Rafen.” ripeté Sarah, con un'espressione momentaneamente addolcita. “Il mio secondo in comando, assieme a Bela. A lui affiderei la mia vita.”
    Evan alzò le sopracciglia. “E a Bela?”
    “Devo ancora capirlo.” disse lei. La diretta interessata, per tutta risposta, le fece una linguaccia e prese un'altra birra.
    “Be', questo lavoro potrebbe darti una spintarella.” disse Evan, mettendo le braccia sul bancone. “O forse no. Forse finiremo tutti in fondo al mare entro stanotte.”
    “Penso sia ora di dirci che cos'hai in mente.” disse Bela, il viso poggiato sul palmo e l'espressione annoiata. “Stai sviando il discorso.”
    Lui sospirò, sentendo un lieve imbarazzo a imporporargli le orecchie. “Non so come chiederlo.” giunse le mani e trasse un lungo respiro. “Ho bisogno di un capitano che porti la propria nave molto vicino a Fort Charles.” Entrambe le donne lo fissarono a occhi spalancati; il coltello cadde dalla mano di Bela. Immaginava potessero avere una simile reazione, lui stesso continuando a pensarci aveva idea che fosse un piano stupido e inutilmente rischioso. Ma era l'unico modo. “E che si prepari ad accogliere a bordo i circa duecento prigionieri attualmente custoditi lì.”
    Sarah scoppiò a ridere ed Evan si sentì solo in imbarazzo. Era derisoria, lo stava chiaramente prendendo per folle. “Oh, cielo!” esclamò. “Questo- questo è davvero folle!” tirò su col naso. Aveva riso fino alle lacrime. Porse il boccale all'oste. “Dammi qualcosa di più forte o penserò di star sognando!” sghignazzò ancora; Bela invece era rimasta stranamente silenziosa e lo fissava con una smorfia sconvolta. “Quindi... tu vuoi che un capitano mandi la sua nave sotto i cannoni per quattro poveracci? E dove li dovremmo mettere?”
    Fece del proprio meglio per non amareggiarsi. “Stavo pensando che poteste portarli qui o in qualche altro porto sicuro.” disse Evan. Rilassò la propria postura e si decise a non tormentarsi le mani. “Radiant Garden sta costruendo un avamposto segreto su un'isola, da lì potrebbero addirittura andare in altri mondi.”
    “O potremmo andare tutti all'altro mondo e basta.” ribatté Sarah. Bela sbottò una risata, sputacchiando birra. “Perché dovrei aiutarti? Io come chiunque altro, chiaro. Che c'è per noi?”
    Evan sfoggiò un sorrisetto sornione. “La mia gratitudine.” pronunciò con falsa solennità. “E quella di quei poveracci, chiaro.”
    Entrambe risero. “Ci sono le nostre vite di mezzo.” disse Bela. “E dovremmo trasportare e sfamare tutte quelle persone.”
    “Sembrate interessate.” disse Evan.
    “Non del tutto.” rispose Sarah. “Sia chiaro, odio Beckett come chiunque altro. Fosse per me sarebbe già in fondo al mare da tempo, ma l'ultima volta che ho incrociato quel mostro su cui naviga mi ha quasi affondato la nave. Bela aveva un'altra nave, è diventata il mio secondo dopo averla persa contro Jones.” Bela distolse lo sguardo, incupita. “Se possiamo danneggiare Beckett lo faremo con piacere, Evan. Ma nessuno lavora gratis.”
    Lui sbuffò. “Hai capito che era una battuta, spero.”
    Sarah sorrise. “Ovviamente, ma voglio comunque una cifra.”
    “Non posso darvi molto al momento.” ammise Evan, chinando il capo. “Al mio ritorno ho speso molti dei miei averi per riprendere le proprietà che Beckett mi aveva confiscato. Ma una volta terminato questo salvataggio potrete decidere il prezzo.”
    “Quindi ci stai promettendo di pagarci.” disse Bela, con una smorfia. “Non si va molto lontano, con le promesse.”
    “Non intendo lasciare un favore non ripagato, se è questo che vi preoccupa.” ribatté lui. “E vi ripagherò bene. Ciò che mi preme è solo salvare quella gente, Sarah.”
    Lei parve pensierosa. Stava di sicuro soppesando i rischi; gli era sembrata interessata fin dall'inizio, ma ora che stava mettendo insieme i dettagli doveva star rivalutando molte delle sue iniziali intenzioni. Dal canto suo non sapeva cosa sperare; era strano che fosse riuscito a convincerla con così poco, si aspettava già di doversi impegnare molto di più. Ma, in fondo, non aveva ancora messo dei soldi sul piatto.
    “Ti direi...” la donna si portò un indice al mento. “Diecimila dobloni.”
    Evan la fissò come se fosse impazzita. “Prego?” ripeté, imbambolato. Persino per uno che non vedeva quel mondo da anni una simile cifra era semplicemente folle.
    “Mi hai sentito bene.” disse lei. “Diecimila dobloni.”
    “Sono parecchi.” disse Evan. “Anche per un pirata nobile.”
    Sarah sorrise. “Ma non per te, vero?” Sentì qualche sguardo intorno a sé, ma lei scosse la testa. “Nessun agguato a sorpresa, Evan. Nessuno ti farà nulla. Ma i servizi di un capitano non sono a buon mercato e quello che stai chiedendo richiede un adeguato compenso.”
    “Come ho già detto, verrai pagata.” disse Evan. “Devi darmi il tempo di poter trovare quei soldi. Dovrò tornare a Radiant Garden.”
    “E perché non ci torni già ora?” disse Bela. “Tanto quelli non scappano.”
    Evan scosse la testa. “Quando tornerò sarà troppo tardi. Beckett partirà presto e prima di allora li farà impiccare tutti quanti.”
    “Quanto presto?” disse Sarah. “Per arrivare a Port Royal ci vogliono giorni col vento a favore, figuriamoci se troviamo problemi!”
    “Se accettate, al trasporto penserò io.” rispose Evan. Sì, aveva un'idea completamente assurda, ma ormai gli sembrava una consuetudine. Aveva avuto l'illuminazione proprio mentre solcava le acque a bordo della Gummiship. Era anche certo che avrebbe funzionato, ma chissà se quel capitano avrebbe anche solo permesso che si facesse una cosa del genere alla sua nave. “Dovremo essere a Port Royal entro stanotte.”
    Ora fu il loro turno di guardarlo sconvolte. “Stanotte?!” ripeté Sarah. “La mia nave non ha le ali!”
    Evan la guardò con un sorrisetto. “La mia sì.”

    “Incredibile!” urlò Bela, sporgendosi dal parapetto. “È incredibile, Sarah! Ci stiamo muovendo senza vento!”
    “G-già, incredibile!” a differenza della compare, Sarah sembrava meno entusiasta. “Che razza di stregoneria è questa...?”
    La nave di Sarah Fortune, la Bella Signora, solcava il Mar dei Caraibi fendendo le sue acque come una lama; spesse corde erano state fissate a diversi punti della nave perché non venisse scardinata e Sarah aveva ordinato in tutta fretta alla sua ciurma di ammainare le vele mentre venivano fissati i nodi, su consiglio di Evan. La Gummiship trainava la grossa nave quasi senza sforzo, il suo potente motore progettato da Cid faceva il proprio dovere e manteneva una velocità stabile; dovevano stare andando almeno a tre volte la velocità massima della Signora, un brigantino leggero e agile che in quel momento sembrava un proiettile lanciato nelle acque dell'oceano. Sembravano divertite, perlomeno; anche Sarah, superata una prima riluttanza, stava ammirando stupita la velocità del loro viaggio.
    Spinta dalla curiosità di verificare le sue intenzioni, Sarah aveva accettato di collaborare – e adesso la nave si dirigeva in tutta fretta verso una scogliera riparata. Da lì avrebbe lasciato il comando a Fortune, mentre lui si occupava d'altro. Evan aveva promesso di pagarla e l'avrebbe fatto; diecimila dobloni erano una cifra ingente, ma avrebbe potuto gestirla. Quelle persone valevano un tale sforzo, giorni di pianificazione e attese e trattative con gente del genere – e adesso lo stava facendo davvero. Il passo che fino a quel momento aveva solo contemplato adesso era reale e lui era pronto a compierlo nonostante le numerose incertezze che ancora aveva; tuttavia non c'era più tempo per limare il piano e sperare che le cose si risolvessero da sole. Aveva radunato alleati e si era anche trovato una nave, adesso mancava solo l'esecuzione del piano. Per un po' aveva cercato di capire come aiutarli, ma la risposta venne presto da sé. Non si sarebbe potuto mettere nel gruppo di coloro che andavano a salvare i prigionieri, ma avrebbe potuto assisterli rimuovendo l'ostacolo maggiore.
    E lui aveva intenzione di parlare di persona con James Norrington.
     
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    Il Guardiano della Luce.


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    Sedeva a quella scrivania, tra mura che tanto tempo prima erano state la sua massima ambizione. Una stanza che diceva ben poco di chi la occupava, con nient'altro che una scrivania, qualche armadietto contenente carte e libri mastri, un alto armadio che ospitava armi adeguatamente lucidate e pronte all'uso. Un obbligatorio quadro di Re Giorgio sovrastava la stanza, un silenzioso osservatore che incombeva su tutti i presenti. Era stato la sua unica compagnia per diversi quarti d'ora, mentre il sole calava e il forte si svuotava. Una falce di luna splendeva fuori dalla finestra in un cielo terso e punteggiato di stelle; il silenzio avvolgeva Fort Charles e l'intera città, da quel luogo ben pochi erano i suoni udibili e ancor meno quelli comprensibili. Accanto alla scrivania c'era una credenza piena di bicchieri scintillanti e liquori, cordiali per gli ospiti di rilievo o perché l'Ammiraglio si concedesse un momento di pace tra un incontro e l'altro. L'aveva adocchiata diverse volte, ma si era guardato bene dal servirsene. Era rimasto tutto il tempo seduto su quella scomoda poltrona imbottita, giocherellando con un tagliacarte, la pistola posata sul tavolo. Stavolta, carica.
    Si era occupato di tutto. Aveva lasciato Sarah in mezzo a una vicina scogliera, che la donna aveva assicurato di poter attraversare non appena fosse calata la notte; aveva già iniziato a preparare diverse grosse scialuppe, che con un po' di attenzione avrebbero potuto ospitare anche una quindicina di persone l'una. Successivamente si era recato allo spiazzo, dove aveva trovato Morgana ad attenderlo. Era da sola; Ben era rimasto, dopo molte proteste, nel loro alloggio e da lì aveva detto che non si sarebbe mosso. La donna ascoltò ogni spiegazione, non senza alzare un sopracciglio quando le fece presente che alcuni soldati della Compagnia si erano detti disposti ad aiutare. Anche Regulus e Kurama, alla fine, si erano uniti a quella bizzarra spedizione. Li aveva ringraziati profusamente e si era apprestato a prendere la posizione che gli competeva, dove avrebbe avuto il compito di bloccare ogni possibile modo di organizzare una controffensiva.
    Aveva fatto tutto il possibile, messo al corrente ognuno del proprio ruolo. Erano tutti pronti a farlo. Si erano affidati a lui, sapendo che un singolo errore avrebbe trasformato quella giornata in una sfilza di impiccagioni. C'era stato un misero preavviso per un'operazione così complessa di cui nessuno sapeva nulla: aveva raffazzonato un pugno di persone, stretto deboli alleanze con soldati e pirati, tutto solo per quel momento. Non poteva negare, guardando fuori dalla finestra, quanto stesse ancora nutrendo dei più che ragionevoli dubbi sul loro operato. Che fosse semplice ansia o il fatto che non si fosse trovato con una simile scarsità di mezzi da mesi, non riusciva a scacciare la paura di aver sbagliato qualcosa, forse tutto, spinto unicamente dalla fretta di salvare delle persone. Se quell'operazione si fosse conclusa in un massacro? Se non fossero riusciti a contenere quei prigionieri ed essi fossero fuggiti per la città pretendendo vendetta?
    Deglutì a vuoto, ricacciando indietro gli ultimi dubbi. Non poteva più permettersi quel lusso mentre ciò che aveva organizzato negli ultimi giorni si stava finalmente compiendo. Anche se avesse avuto modo di fare uso delle risorse di Radiant Garden non ci sarebbe stata la garanzia che le cose si sarebbero risolte senza vittime e, anzi, il fatto che ci fosse stato l'Esercito di Sora di mezzo avrebbe solo reso tutto enormemente più difficile, visto che si sarebbero dovuti scontrare con Beckett e tutta una serie di faccende politiche a cui non voleva nemmeno pensare. Era così strano come proprio quell'isola nel Mar dei Caraibi fosse il punto più importante dell'intero mondo... non Londra, o Parigi, o Roma. Nemmeno le Colonie, o i paesi del lontano Oriente. Port Royal era il centro del mondo, gli dava persino il nome. A detta del dottor Even, i nomi dei mondi derivavano dalla teoria che, alla loro ricostruzione, quei luoghi fossero i primi in cui si fossero risvegliate le persone; altre teoria pensavano che derivassero dal fatto che in quei luoghi fosse custodito il Cuore del Mondo. Evan non aveva idea se tutte, nessuna o solo alcune fossero vere e, al momento, non poteva neppure pensarci più di tanto. Ma la sua mente vagava, perdendosi in inutili domande allo scopo di scacciare una tensione crescente. In quel momento, il trio di persone che aveva richiamato si stava addentrando nel Forte. E Richard si stava muovendo su sua esplicita richiesta, rischiando moltissimo, con il solo scopo di portargli il problema principale della missione.
    Passi si susseguirono nel corridoio, voci si rincorsero tra le mura. Evan rivolse lo sguardo verso la porta e afferrò la pistola. Un tono sgradevolmente familiare raggiunse le sue orecchie. Perentorio, autoritario, altero. Il tono di chi stava parlando con qualcuno che riteneva inferiore, appartenente ad una voce che bruciava nelle sue ferite come sale. La voce era sempre più vicina. Stava già blaterando ordini; Richard, che era stato tanto spavaldo e si era addirittura messo a sfidarlo apertamente in quella caverna marina, adesso parlava in tono basso, come un pigolio spaventato, una sequela di monosillabi di assenso e servilismo. Non poteva certo biasimarlo, era come un merluzzo che cercasse di condurre uno squalo. Mise i piedi sulla scrivania, sporcandola di terriccio e polvere. Vi poggiò anche la mano che impugnava la pistola, tenendola puntata verso la porta.
    “...e voglio subito Groves e Williams qui.” L'Ammiraglio sembrava teso. “Sei stato bravo, Smith. Aspettati una promozione.”
    “S-sissignore.” disse la voce di Richard. La porta si aprì.
    Per poco il dito di Evan non scattò sul grilletto. Alto, già vestito di tutto punto con la divisa scura della Compagnia, pulita e inamidata, la parrucca bianca impeccabile sotto il cappello a tricorno dagli orli dorati, James Norrington fece il proprio ingresso nell'ufficio con gli occhi scuri che saettarono subito all'armadietto delle armi senza nemmeno degnare la scrivania di uno sguardo. Al buio, Evan era difficilmente visibile. La sua mano tremò sulla pistola. Il suo respiro accelerò nel vedere la familiare schiena, sentire quella voce che anni prima li arringava e spingeva al dovere. Richard era ancora sull'uscio e gli lanciò uno sguardo preoccupato, deglutendo a vuoto; Evan gli annuì per tutta risposta, lasciando quindi che il giovane soldato chiudesse in fretta la porta e la chiudesse a chiave. Tale movimento improvviso non tardò a far voltare l'Ammiraglio, che guardò la porta con un'espressione sconvolta che già tendeva ad una rabbia feroce. “Smith? Smith?!” richiamò, avanzando verso di essa a grandi falcate. “Che significa questa insubordinazione?!” latrò, battendo sulla porta e scuotendola; il rumore fece irrigidire Evan, che si affettò a sollevare l'indice dal grilletto. Gridava ordini rabbiosamente. Come quella notte.
    Evan si fece notare. “Sedete, Norrington.”
    L'Ammiraglio smise all'istante di battere sulla porta. Le sue mani scivolarono lentamente sul vetro e sul legno; si voltò verso di lui, la sua espressione coperta dalla penombra dell'ufficio. “Gallaway.” disse, con un tremito nella voce. “Sono stato uno sciocco.”
    Evan lo fulminò con lo sguardo. “Non sarebbe la prima volta.”
    Sotto un raggio di luna poté vedere il suo viso appesantirsi nel nervosismo. “Siete armato. Smith è al vostro soldo, immagino.”
    “Mi assicuro solo che questa operazione si svolga senza vittime.” rispose Evan. “Rimuovervi dalla scena è una delle modalità migliori.”
    “Un altro dei vostri piani?” disse Norrington. “Siete tornato a Port Royal solo per liberare altri pirati? Sei anni non vi hanno cambiato affatto.” sferzò, piazzandosi di fronte alla scrivania. “Nemmeno la morte dei vostri stessi familiari ed amici è riuscita a farvi capire quanto siate stato folle.” scosse la testa. “Eccovi qui a ripetere lo stesso errore.”
    “Il mio errore è stato non morire con loro.” rispose Evan. “Sedete, Norrington. Non uscirete da questo ufficio finché non avranno finito.”
    “Adesso minacciate un alto ufficiale.” Il suo sguardo si spostò sulla pistola. “Il potere vi ha dato alla testa.”
    “Non sono il Comandante di Radiant Garden, al momento.” disse Evan. “Ma non mi serve esservi superiore di grado per minacciarvi, Norrington. Foste il Re in persona e io un pezzente qualunque, rimarreste solo un frammento d'uomo e nemmeno di particolare valore.” Tirò indietro il cane della pistola, gli occhi che dardeggiavano. “Sedetevi. Non ve lo ripeterò”
    “Quindi siete qui per questo.” Titubante, Norrington si sedette di fronte alla sua stessa scrivania, senza smettere di adocchiare l'arma che gli veniva puntata contro. “Siete qui per vendicarvi.” Alla luce della luna, nei suoi occhi c'era una strana espressione. Un bagliore, simile alla scintilla morente di un fuoco consumato.
    “Ne avrei ogni diritto.” Le parole gli uscirono in un sussurro velenoso. Trasse un profondo respiro. “Eppure, no. Non ancora. Il mio obiettivo è che rimaniate qui mentre i prigionieri vengono liberati. Ma visto che non avete dove andare, potete approfittarne per rispondere a qualche domanda.”
    Norrington sollevò lo sguardo. “Non sforzatevi.” sbuffò. “Ho fatto impiccare i vostri amici perché erano disertori e traditori. Questo basta.”
    Un gelido sussulto gli scosse il petto. “Non ve ne pentite neanche un po'.” La voce di Evan era quasi un mormorio. Lo sguardo di Norrington si fissò sul suo mentre confermava. “Del resto, avete fatto impiccare un bambino con leggerezza.”
    “Avevo i miei ordini!” scattò Norrington. “Non è l'unico bambino pirata che abbiamo fatto impiccare. È la legge. Che ci piaccia o meno!”
    “Legge che Beckett ha piegato e pervertito come vuole!” replicò Evan, battendo il pugno sulla scrivania. “Fermo dove siete.” sibilò. “Quel tagliacarte che cercate di raggiungere non vi servirà a nulla. Posso farvi fuori come e quando voglio anche senza armi, quindi state al vostro posto in silenzio e con la coda tra le gambe. Dovreste essere ormai bravo nel farlo.”
    Norrington si abbandonò contro la sedia, sospirando sconfitto. “Cosa volete, Gallaway?”
    “Capirvi.” rispose Evan. Quella parola aveva un sapore melmoso. “Sì, suona assurdo anche a me, eppure sento di doverlo fare. Le vostre ambizioni vi hanno sempre accecato, Norrington, ogni volta che avete ottenuto qualcosa volevate solo di più. Che non aveste una morale lo sapevo già, ma adesso...” l'uomo riuscì a malapena a tollerare il suo sguardo. Mantenne il contatto visivo solo per pochi istanti, prima di cedere e chinare il capo. “Catturare e impiccare innocenti indiscriminatamente? Senza contare...” Norrington si irrigidì. “Il regalo che avete fatto a Beckett.”
    L'uomo lo fissò sbigottito. “Come... come lo sapete?”
    “Il mare ha occhi e orecchie.” rispose Evan. “La piccola avventura della Perla Nera a Isla Cruces non è passata inosservata e a nessuno sfugge che l'Olandese Volante ora sia al comando di Beckett. Non tutti i pirati sono stupidi come vi piace pensare, Norrington. E la ciurma di Sparrow non vi ha dimenticato.” Più lo guardava, più avrebbe voluto farlo a pezzi. “Perché l'avete fatto?”
    Dal Forte non giungeva alcun rumore e lo prese come un segno che l'operazione stava andando bene. Evan non poteva fare a meno di essere preoccupato per loro, ma al contempo la sua mente era concentrata solo su Norrington. L'uomo taceva, adombrato e teso, torturandosi le mani. Una parte di sé voleva che non rispondesse mai, che semplicemente rimanessero così fino a che uno dei soldati non tornasse da loro a dire che era tutto finito. A quel punto si sarebbe limitato ad andarsene senza dirgli altro; non aveva idea di cosa aspettarsi quando si era proposto di pensare lui a impedirgli di muoversi, ma adesso che ce l'aveva di fronte il suo cuore impazziva. Ogni parola che aveva detto finora riecheggiava delle grida e delle suppliche di Paul e Nate. Lo vedeva al patibolo, come se fosse stato lì quel giorno, ad ascoltare le loro suppliche e vedere le botole aprirsi sotto di loro senza il minimo rimorso. Perché era la legge. Un tintinnio della pistola lo avvisò che la sua mano tremava di nuovo. Un dolore simile a minuscoli aghi calati sulla carne gli prese la schiena e fece del proprio meglio per ignorarlo.
    Norrington parlò. “Quel Cuore era la mia unica possibilità di riavere indietro la mia vita. Non m'importa di ciò che accadrà a un mucchio di criminali, Gallaway, ora ho finalmente i gradi che merito. Tutto ciò per cui ho lavorato!” Sollevò lo sguardo verso di lui. “Voi non potete capire. Non sapete cosa significhi perdere tutto.” Evan tacque, sentendo l'occhio destro stringersi per un momento. “Essere ridotto ad ubriacarmi a Tortuga? Supplicare i pirati di darmi un posto nella loro ciurma?” si batté il petto. “Io, James Norrington, Commodoro della Marina di Sua Maestà Re Giorgio? Non potevo accettarlo. Mentre Sparrow e Turner si azzuffavano per le loro patetiche vite e i loro egoistici obiettivi, ho fatto il mio dovere come ogni bravo suddito della Corona farebbe. Ho dato a Lord Beckett l'arma definitiva contro i pirati. Per portare la pace in queste acque.”
    Evan lo guardò e per un momento gli parve non dissimile da un grosso, viscido e macilento verme. Deglutì a vuoto, sentì il groppo andargli giù per la gola, il suono rimbombargli nelle orecchie. Assottigliò lo sguardo, lo stomaco capovolto dalla nausea. “...è ciò che vi dite davanti allo specchio, quando nessuno vi vede?”
    Norrington lo fissò con un'espressione sorpresa. Evan stesso si meravigliò delle proprie parole. La risposta di quell'uomo non fece che attizzare il fuoco della rabbia, faceva tremare la mano sulla pistola e innalzava urlando alle sue dita l'impulso di sparare, svuotare su di lui l'intero caricatore, e poi un altro, per poi dilaniarlo con ogni magia che conoscesse fino a ridurlo ad una poltiglia irriconoscibile; il tintinnio metallico della pistola gli ricordava di poterlo fare. Eppure...
    “La legge. La pace.” continuò. “Vi riempite la bocca di concetti altisonanti, avete addirittura rimproverato Sparrow e quel Turner di egoismo. Ma voi avete dato a Beckett il cuore di Jones solo per riavere i vostri privilegi, così come avete fatto impiccare due ragazzini per farvi bello col Governatore. Mi sembra ampiamente egoista da parte vostra.”
    L'espressione sul volto dell'uomo tremò. Si incrinò come vetro sotto pressione. “Voi siete un pirata e un disertore...” Replicò, respirando pesantemente. “Siete piombato nel mio ufficio per minacciarmi e fare come vi pare! Avete istigato all'insubordinazione i miei uomini!” Si infervorò, la sua voce si fece sempre più alta e tonante. Istintivamente, Evan si ritrasse strizzando un momento gli occhi, ma Norrington era troppo preso dal proprio sfogo per accorgersene. “Voi avete fatto morire i vostri cari per egoismo! Con quale diritto fate a me la morale?!” scattò in piedi, dimentico della pistola, sbattendo le mani sulla scrivania. Evan sussultò. “Non siete altro che un traditore fortunato, Gallaway! Se non foste protetto dai vostri gradi... se non foste un Prescelto... vi avrei già mandato a far compagnia ai vostri amici all'inferno!”
    Rimasero a fronteggiarsi per attimi interminabili, grigio contro castano in una notte così silenziosa da essere soffocante. Il volto di Norrington era paonazzo, madido di sudore. Il suo respiro era affannoso, come un toro dopo una carica.
    “Voi siete venuto qui per perseguitarmi.” disse l'Ammiraglio con voce incrinata, ogni parola scandita da uno stanco respiro. “Non cadrò nella vostra trappola. Ora, se non vi dispiace, ho un'evasione di massa da impedire.”
    Evan tolse i piedi dal tavolo e li batté sul pavimento di legno, abbastanza forte da far bloccare Norrington sul posto per quel rumore improvviso. “Non vi ho dato il permesso di andarvene.”
    “Non andate mai in giro col colpo in canna, l'avete detto voi stesso.” disse l'uomo. “Lord Beckett mi ha parlato del vostro fugace incontro. Sono stato al gioco abbastanza a lungo.”
    “Beckett non si era ancora guadagnato il mio odio.” Evan si alzò e levò la pistola al livello della testa di Norrington. “Volete sfidare la sorte?”
    Si voltò verso di lui. “Mi sparereste davvero?” sbuffò un sorriso amaro. “Non credo rischiereste un simile incidente diplomatico.”
    “Questa fortezza è piena di soldati pronti a prendersene la colpa.” rispose Evan, respirando più veloce del normale. “Come ho detto, ne avrei tutti i motivi.”
    “Non avete ancora sparato.”
    “E voi non siete ancora uscito.”
    Il contegno dell'Ammiraglio parve sgonfiarsi, un peso invisibile lo fece ingobbire. D'un tratto, dove prima c'era un uomo tutto d'un pezzo, c'era solo qualcuno di completamente diverso – il suo sguardo era vuoto, stanco. Le sue braccia erano lasciate a penzolare lungo i fianchi, sembrava sul punto di cadere a terra spiegazzato come un lenzuolo. Evan non abbassò l'arma.
    “Io ero lì, Gallaway.” disse Norrington con voce roca. “Ero lì quando Seele ha sparato alla corda. L'ho visto sorridervi.” Evan tacque. “Ho sparato a Carter.” continuò. “Il proiettile prese il terreno. Ma fu sufficiente a farlo desistere dall'ostacolarci oltre.”
    “Ricordate i loro nomi.” disse Evan. “Sono sorpreso.”
    “E ricordo le loro suppliche.” ribatté Norrington. “Dalla prima all'ultima. Piangevano come bambini.”
    Ed Evan, sentendo nuovamente le fiamme dell'indignazione avvampargli nel petto, si bloccò. Con uno sbuffo amaro, abbassò la pistola per la prima volta dall'inizio di quella serata, lasciando che il braccio che la reggeva gli ricadesse pesantemente lungo il fianco; emise uno stanco sospiro, chinò il capo scuotendo la testa con un movimento lento. Ogni forza parve abbandonargli le membra.
    “Norrington...” pronunciò in una risata amara. “Perché volete a tutti i costi che vi uccida?”
    Non vide l'occhiata dell'Ammiraglio, ma si accorse che non si muoveva da lì. “Non siete qui per questo?” Evan risollevò lo sguardo, senza rispondergli. “Voi...” l'espressione di Norrington vacillò. “Non potreste capire.”
    Di nuovo quella frase. “No?”
    “Mi credete un mostro.” disse Norrington. “Non nego che potreste anche aver ragione. Sono il mostro che ha fatto uccidere i vostri amici e che non ha mosso un dito mentre Beckett impiccava bambini. Sono il mostro che ha consegnato il mondo nelle mani della Compagnia delle Indie Orientali...” Diede le spalle alla porta, il capo chinato, il cappello a tricorno che copriva parte del suo viso. “Tutta questa sofferenza l'ho causata io. Centinaia, migliaia di persone moriranno a causa mia. Non mi ripeto quello che vi ho detto su legge e pace davanti allo specchio, Gallaway!” lo guardò negli occhi, e ad Evan parve di perdersi in un oceano troppo simile a quello su cui aveva navigato per anni. Fece un passo indietro, faticando a sorreggere lo tsunami di emozioni che fuoriusciva da quella maschera crepata. “Non ho più neanche il coraggio di guardarmici!”
    “Troppo tardi per i pentimenti.” ribatté Evan. “Troppo poco.”
    “Lo so.” Norrington deglutì a vuoto. “Ma non posso più rimediare. Posso solo fare ammenda con la mia vita. Consegnandovi la vendetta che meritate, forse almeno una cosa giusta potrò farla.”
    “E io vi farei saldare il conto volentieri.” disse Evan con voce spenta. La pistola nella sua mano sembrava pesare una tonnellata. L'arma carica che fino a quel momento era riuscito a tener sollevata senza fatica, che aveva puntato al cuore inesistente di Norrington con il solo intento di verificare se ne avesse uno, rimaneva puntata verso il terreno come se un magnete invisibile la tirasse in quella direzione senza che potesse opporsi. In petto Evan sentiva un incendio che continuava a divampare, il disgusto provocatogli dalla voce di quell'uomo, dalla sua mera presenza, sufficiente a fargli venire il vomito. Eppure non riusciva più a sollevare la propria arma o ad usare anche solo una semplice magia per esigere la vendetta che agognava nei recessi più oscuri della sua mente. Nel guardare quel volto devastato dal senso di colpa, occhi che guardavano a quella pistola come un assetato ammirasse fresca acqua di fonte, riuscì solo ad esalare un tremulo sospiro.
    “Cosa vi trattiene?” Norrington lo riportò alla realtà.
    “Domande.” mentì Evan. “Eravate a blaterare ordini e sicuramente avete pensato di far giustiziare Richard – Smith – per insubordinazione, reiterando errori già commessi... e adesso siete qui a supplicarmi di uccidervi. Avete ragione, non capisco.”
    “La vendetta non sembra allettarvi come prima.” disse Norrington.
    “L'uomo che volevo uccidere potrebbe essere già morto.” ribatté Evan.
    Per tutto il tempo del loro discorso qualcosa aveva continuato a stonargli; il modo di fare così plateale, le aperte provocazioni. Norrington non faceva che istigarlo senza la minima discrezione, continuava a portare alla luce Nate e Paul, i suoi genitori, a volte persino la sua condotta con Beckett. Più la sua mano tremava sulla pistola, più quell'uomo cercava di infierire. Si era aspettato un fiero, crudele Ammiraglio della Flotta della Compagnia, invece si era trovato davanti qualcun altro. Qualcuno che non riconosceva.
    L'uomo che avrebbe dovuto chiamare James Norrington si lasciò ricadere su una sedia come un sacco sgonfio. Evan lanciò uno sguardo fugace ai bastioni, dove gli parve di scorgere alcuni soldati che correvano in tutta fretta. Forse erano stati trovati. Sperò solo che nessuno venisse a disturbare in quel momento; senza direttive precise, si sarebbero limitati a farsi scacciare da qualche parola dei loro compagni. Mercer non c'era e di Beckett nemmeno l'ombra. Si chiese se i luogotenenti di Norrington avrebbero reagito.
    Norrington tolse il cappello e la parrucca, posandoli sulla scrivania. I corti capelli scuri risaltavano il suo viso rigido e altero, segnato dalle intemperie e dalle emozioni.
    “Mi chiedo quando sia morto James Norrington...” mormorò. Giunse le mani, gli occhi puntati sul pavimento. “A Tripoli in quell'uragano? A Isla Cruces, quando ha tolto il Cuore dal vaso di Sparrow? Quando ha perso tutto prima ancora di saperlo?” sbuffò un sorriso amaro. “Siete davvero un uomo crudele, Gallaway.” Gli rivolse un sorriso cupo. “Vi ho dato l'opportunità di compiere una buona azione. Credevo che i Keyblader fossero disponibili ad aiutare il prossimo.”
    Le labbra gli si assottigliarono, strinse le palpebre. “Io vi uccido ogni notte.” disse Evan in un poco più di un roco, indecifrabile sussurro, tremante come i vetri di una finestra in una notte di tempesta. “Ogni notte risalgo su quel promontorio e uccido voi, i vostri uomini e chiunque si metta tra me e Nate e Paul. Per tanto tempo, quando dormivo sotto le stelle, guardavo il cielo e contemplavo in quanti modi avrei potuto uccidervi se vi avessi rincontrato. Siete la persona che odio di più al mondo, James Norrington. Persino più di Beckett. Persino più di Fastus.”
    “Eppure la vostra arma tace.”

    Il respiro gli si fece doloroso, mentre pronunciava la risposta.

    “Perché... non meritate di morire.”

    La voce di Evan traballò per un istante. “Io vi odio, Norrington. E vi odierò per sempre. Però...” deglutì a vuoto. Strinse il calcio della pistola, ma l'indice era ben lontano dal grilletto. “Uccidervi non mi restituirà Nate e Paul. Verserei solo altro sangue in una storia che ha già visto troppe morti.”
    Un vento notturno fece tintinnare le finestre riecheggiando come rintocchi di campane nella stanza silenziosa. Il greve sudario senza suoni che li aveva avvolti sembrava indistruttibile, il loro scontro di sguardi senza alcuno spettatore proseguì per tesi istanti. Esistevano solo loro due in tutta Port Royal, nel mondo intero. Il respiro di Evan tremò. Ogni parola era pesante, difficile da tirar fuori come un boccone di chiodi.
    “Avreste la soddisfazione di aver ucciso il loro assassino.” disse Norrington. “Non era la vostra aspirazione?”
    Annuì. “Sì, l'ho detto.” disse, sollevando la pistola. I polpastrelli scorsero sulla canna, che luccicò malevola alla luce della luna. “Stanotte questa pistola è carica.” disse. Norrington si irrigidì. “Avevo tutta l'intenzione di usarla. Ad ogni parola ero sempre più tentato. Ma nemmeno tutto l'odio che ho provato in questi anni mi ha dato la forza di premere il grilletto.”
    “Perché...?”
    Evan chinò il capo. “Il James Norrington che ha fatto impiccare i miei amici non esiste più. L'avete detto anche voi, in fondo.” disse a mezza voce. “Che sia morto nell'uragano, su Isla Cruces o che abbia consegnato a Beckett il proprio cuore assieme a quello di Davy Jones, quell'uomo non c'è più.”
    “Una comoda scusa.” disse Norrington. “Ho fatto impiccare quegli uomini, pochi giorni fa. Ho fatto arrestare decine di persone.”
    “E per ciò state pagando.” disse Evan, lanciandogli uno sguardo compassionevole. “E continuerete a pagare. Non otterrete nulla pregando di fuggire dal vostro dolore, Norrington. Non da me. Non mi macchierò le mani del vostro sangue.”
    “Credevo che voleste vendicare i vostri amici!” la voce dell'Ammiraglio era spezzata, le sue parole confuse. Sembrava solo si stesse appigliando ad ogni argomentazione che potesse irritarlo. “Avete così poco rispetto per la loro memoria? Seele e Carter non esiterebbero a spararmi!”
    Evan sorrise amaramente. “Forse.” disse. “Paul cercherebbe di prendervi a pugni, più che altro. E sì, forse Nate sarebbe molto indeciso se spararvi o meno, anche più di me, ma so per certo che nessuno dei due vorrebbe che io vi sparassi a sangue freddo. Men che meno in loro nome.” Pollice e indice si strinsero a pinza sulla bocca della pistola. Evan guardò fuori dalla finestra, aspettando un segno che ancora non arrivava.
    Norrington aveva di nuovo chinato il capo, torturandosi le mani. “Non vi capisco...”
    Evan lo guardò in viso. “Io ho un figlio.” disse, abbassando la pistola. “Una donna che amo. Amici che voglio proteggere. Un esercito da guidare.” Esalò un tenue sbuffo. Lo fronteggiò, grigio su castano, di nuovo. “Che mondo può mai creare un uomo che si lascia guidare dal proprio odio?” Una cupa realizzazione si fece strada sul volto di Norrington; l'uomo distolse lo sguardo, perso nei propri pensieri. “Non fraintendetemi... io vorrei uccidervi. Tutto ciò che vi ho detto è vero. Ma se lo facessi, se vi togliessi la vita, poi non riuscirei più a prendere in braccio mio figlio, né a stringere la mia fidanzata tra le braccia, o a guardare in faccia i miei cari. Questo, Nate e Paul non lo sopporterebbero. La vostra vita... la mia vendetta... non valgono così tanto.”
    E questo lo aveva capito nel momento in cui il loro scontro verbale era giunto all'esasperazione. Norrington non faceva che supplicare di ucciderlo, di fuggire dal dolore che stava provando. E per quanto Evan volesse accontentarlo, una parte sempre più massiccia di lui si era rifiutata di premere il grilletto. Era come se Nate e Paul fossero lì, accanto a lui, a trattenere quella pistola. Le mani dei suoi genitori, delle persone che aveva perduto e che aveva trovato, erano tutte strette attorno a quell'arma perché non facesse fuoco. Persino adesso per Evan era difficile da capire; dentro di lui la rabbia infuriava ancora, ma ogni parola che pronunciava, che prima sembrava tanto difficile anche solo da pensare, scorreva come acqua e spegneva l'incendio nel suo cuore. Tutto diventava più semplice e comprensibile. La via giusta da seguire, che gli era sembrata così offuscata, così incerta all'inizio, sembrava via via più chiara. Era deciso a percorrerla, anche se i suoi passi dolevano.
    “Capisco molte cose, adesso.” disse Norrington. Evan lo guardò incuriosito, senza dire nulla. “Da quella notte una domanda ha continuato a perseguitarmi... mi chiedevo cosa potesse spingere una persona a cedere così facilmente la propria vita per qualcuno.” le sue mani si giunsero l'una sull'altra con forza. “Seele sapeva a cosa andava incontro. Sapeva che se lo avessimo arrestato lo avrebbe atteso il capestro.” Evan si irrigidì. “Tuttavia ha sparato a quella corda senza la minima indecisione. Per salvare voi ovviamente, non certo Mendoza. Per voi, Seele ha gettato al vento la propria vita.” Ne sono consapevole, avrebbe voluto dirgli; ma Norrington continuò subito senza lasciargliene il tempo. “Non ho mai avuto modo di capire che persona foste, Gallaway. Ho sempre pensato che sareste potuto diventare un buon capitano. Forse, sotto la guida del signor Groves, anche qualcosa in più. Ma quando vidi quella scena, tutto ciò che riuscii a provare fu invidia.”
    Invidia?” Evan lo fissò sconvolto. “Per cosa?!”
    Qualcuno sarebbe disposto a questo, per me? Io arriverei a tanto, per qualcuno?” rispose Norrington. “Inutile dire che la risposta fu 'No' per entrambe. E lo è ancora. Il gesto di Seele per me è ancora uno dei più grandi misteri a cui abbia assistito.”
    “Forse non lo capirete mai.” rispose Evan, distogliendo lo sguardo. “Non sarò io a spiegarvelo.”
    Norrington tacque. Un silenzio trepidante, pregno di attesa, lo avvolgeva. “Voi...” esordì, con voce carica di esitazione. “Voi avete qualcuno per cui sareste disposto a tagliare quella corda?”
    Fu costretto a guardarlo di nuovo, per quella domanda; e malgrado quella situazione gli gravasse nel cuore come un pesante macigno, riuscì a sorridergli. Volti gli vennero in mente. Tanti, troppi per poterli anche solo nominare tutti, alcuni anche meno ovvi di altri; e per ognuno sì, era disposto a dare anche ben più della propria vita. “Più di quanti possa contarne.”
    Eppure non era un sacrificio fine a se stesso. Non avrebbe neppure saputo spiegarne il motivo... ma era qualcosa di diverso. Era molto di più.
    Un bagliore gli raggiunse la coda dell'occhio; in lontananza, una luce rossastra si levò nel cielo come una stella cadente, brillando nel cuore della notte di Port Royal e lampeggiando sulla città per pochi istanti. Il cuore di Evan ebbe un tuffo a vederla. Deglutì a vuoto, mentre la lenta, gioiosa consapevolezza di ciò che tale luce volesse dire gli inondava il cuore come il calore di una zuppa calda d'inverno.
    “Ce l'hanno fatta.” commentò, sorprendendo il suo interlocutore. “Senza incidenti. Nessun morto.”
    “Com'è possibile?” biascicò Norrington.
    “Le persone sono più di quanto crediate.” rispose Evan. “Forse dovreste iniziare a capirlo. Non siete solo come pensate, i vostri soldati vi ammirano e stimano. Avete buoni ufficiali che vi seguirebbero in capo al mondo.” Lui sarebbe stato tra quelli. Stimava Norrington. Lo ammirava, come molti altri. Era una sorta di eroe, il potente capitano della Dauntless, in molti volevano servire sulla sua nave. Anche lui. E Nate. E Paul. Le parole di quella sera vorticarono nella sua testa e investirono i suoi pensieri; d'un tratto parvero più taglienti e pesanti che mai. “Ma se continuerete a servire Beckett, avrete ben poche possibilità di fare qualcosa di buono.” Si avviò verso l'uscita della stanza.
    Norrington non tardò a notare i suoi movimenti. “Dove state andando?”
    Evan si bloccò sulla porta, artigliando la maniglia. “Abbiamo finito.” disse, sentendo un peso sempre maggiore sul petto. Ora che quella tensione per la missione era andata via, faticava persino a stare in piedi. Voleva solo andare il più lontano possibile, da Norrington e da tutto quanto. “Non ho più motivo di trattenervi qui.”
    “Comandante Gallaway.” Norrington lo chiamò, ma non gli rispose. Frugò nella propria tasca alla ricerca della chiave di riserva che Taylor gli aveva preparato. “Evan.”
    Norrington, in piedi nell'ufficio, aveva ancora il cappello tra le mani. La sua figura era in ombra, ma poteva vedere che avesse gli occhi lucidi. Evan si voltò verso di lui e per un momento si sentì di nuovo piccolo, insignificante. Una recluta a malapena addestrata di quindici anni che si trovava di fronte al suo Capitano, il suo idolo, solo per scoprire che gli rivolgeva contro i fucili. Fece del proprio meglio per disciplinare il proprio affannoso respiro, la chiave bloccata nella toppa.
    “Mi dispiace... per tutto.” disse Norrington. “Per quello che ho fatto a te e a Seele, a Carter. Se potessi tornare indietro...”

    Non ti ho strappato a una vita felice, Evan.

    “Tutto quello che ho passato nella mia vita...” Evan guardò verso il pavimento. La vista gli si annebbiò. Strizzò le palpebre. Le sue labbra si assottigliarono di nuovo, deglutì a vuoto per ricacciare indietro qualsiasi confusa e dolorosa tristezza stesse provando. “Ogni singolo momento mi ha portato a questo.” Guardò Norrington con un sorriso amaro. “Non avrei tutto ciò che ho adesso. Non posso più dire di voler tornare indietro, James. Posso solo andare avanti.”
    “Ciononostante...” disse Norrington. “Mi dispiace. Anche se non oso chiedere il tuo perdono.”
    No, non avrebbe potuto. Né dovuto. Non c'era nessuna valida ragione per cui potesse osare chiederglielo. Se Evan ripensava a tutto ciò che aveva passato per l'assurda idea di Norrington di impiccare un uomo ingiustamente, ciò che aveva iniziato tutto il percorso che li aveva portati a quella notte, non poteva provare altro che rabbia e disprezzo. Nonostante tutte le parole che aveva detto, tali sentimenti lo avevano sostentato talmente a lungo che gli risultava quasi impossibile distaccarsene; arrivare fino al suo mondo natale, la sua Port Royal completamente in balia di un tiranno fuori di testa, non aveva fatto che acuire e riportare a galla sentimenti che credeva di aver dimenticato. Di nuovo, si sentiva come quel ragazzino fuggito per un pelo al capestro. Si era retto ad una catena fatta d'odio, che aveva allungato di giorno in giorno per tenersi a galla, senza accorgersi che essa non si reggeva più alla terraferma da tempo.
    Ed Evan Gallaway era ormai un uomo adulto. Quella catena che credeva lo stesse sorreggendo si era solo impigliata ad altre e insieme lo stavano solo tirando sempre più giù, ognuna resa sempre più pesante quando cercava di reggerne il peso. Per togliersi dal collo quella terribile zavorra che gli toglieva il respiro, perché potesse di nuovo riemergere dall'oceano in cui stava affondando, poteva solo disfarsene.
    Per quanto distaccarsene facesse anche più male.
    Girò la chiave e la lasciò nella toppa, aprendo la porta. Si voltò verso quell'uomo, traendo un doloroso respiro. “Io ti perdono, James Norrington.” la sua voce tremò. “Fanne buon uso.”



    Uscire da Fort Charles non fu difficile. Per entrare si era dovuto arrangiare, teletrasportandosi in giro ed entrando dalle porte che gli venivano gentilmente aperte dai suoi complici per quella sera; ma per uscire non si preoccupò nell'usare il cancello principale.
    Vagò come ubriaco, incespicando qua e là, lo sguardo fisso in avanti senza preoccuparsi di dove mettesse i piedi. In petto sentiva solo l'incessante tambureggiare del cuore che scalpitava e ad ogni battito gli occhi gli bruciavano sempre di più; non voleva piangere, non voleva cedere a qualsiasi inspiegabile sentimento stesse provando, ma sentiva come se un fardello gli fosse stato rimosso dalle spalle; tuttavia esso non era mai stato semplice da portare. Fu come se qualcuno avesse deciso di strappargli di dosso un sacco pieno di lamiere e chiodi, le cui ferite erano diventate sempre più sopportabili e quasi impercettibili, finché esse non furono esposte all'aria impietosa di quella notte fredda, libere di bruciare, di fare tutto il male che avevano trattenuto per anni.
    Si resse al muro di una casa, tirando su col naso. Ogni frase di quella discussione rigirò e rimescolò nella sua mente come un mulinello che cercava di trascinarlo in un abisso ancora più profondo. Le dita cercavano di stritolare la pietra, il respiro era affannoso, scomposto. Voleva tornare lì dentro, esigere la sua giusta vendetta senza che nessuno gli dicesse nulla. Sarebbe stato facile. Si voltò con l'intento di farlo.
    Fanne buon uso.
    Gemette. Chinò il capo, non riuscendo a trattenere un singhiozzo. Non aveva fatto altro che piangere come un bambino in quei giorni; e adesso si sentiva solo confuso, sollevato e amareggiato, spaventato e rassicurato. La strada era vuota, nessun soldato lo stava inseguendo. Norrington non aveva dato l'allarme. I cannoni di Fort Charles tacevano.
    Paulie è morto, Evvy.
    Lo sapeva, ovvio. Cosa si aspettava? Che liberando delle persone come si doveva, Nate e Paul sbucassero magicamente davanti a lui ad abbracciarlo e ringraziarlo? Forse sì. Forse una parte di lui voleva proprio questo. Fare le cose per bene nel presente per cambiare il passato... ma non aveva senso. Ovvio che non ne aveva. Nate e Paul non c'erano più, erano stati impiccati. E anche se Nate fosse in qualche modo sopravvissuto diventando un Heartless, le possibilità che riuscisse a ritrovarlo in mezzo ai miliardi di quelle creature rasentavano il nulla assoluto. Tanto valeva darlo per perduto e basta, limitandosi a sperare che un giorno riuscisse a tornare anche solo un decimo della persona che era. Forse ci sarebbero voluti decenni, secoli. E lui non avrebbe mai più avuto modo di rivederlo.
    Come un ubriaco claudicante, i suoi passi lo condussero lentamente fino a casa. Lesse di sfuggita il rapporto di Morgana, che gli assicurava che tutto era andato per il meglio e non c'erano stati né morti né feriti; non ebbe comunque la forza di risponderle. Rimise il palmare in tasca e proseguì, un passo dopo l'altro. Era così tardi che persino la Sirena era chiusa; la città dormiva beatamente ignorando lo sfacelo che aveva rischiato di succedere se anche solo una delle cose che aveva pianificato non avesse funzionato. Sapeva di doversi sentire molto meglio di così. Avevano liberato degli innocenti impedendo che venissero impiccati senza nemmeno un valido giudizio, aveva avuto il confronto con Norrington che nemmeno aveva osato sperare di avere; eppure non riusciva ad essere felice del tutto.
    Quel sollievo faceva male.
    Aveva passato anni a sperare di rincontrarlo. Sparargli, farlo soffrire. Per tutti i mesi in cui aveva servito sotto Mendoza aveva continuato a pregare di incrociare la Dauntless e aveva detto che se avessero abbordato quella nave, Norrington sarebbe stato la sua preda e nessuno si sarebbe dovuto intromettere. Anche dopo, arrivato a Radiant Garden, aveva covato certi pensieri e sperato prima o poi di raggiungere Port Royal. Nel caos e nella morte, quelle speranze sembravano meno atroci. Aveva vissuto in mezzo a gente che usava una giustizia bestiale per così tanto tempo da aver volutamente ignorato gli orrori che accadevano intorno a lui, mentre gli abitanti costretti a rimanere a Radiant Garden, ormai Hollow Bastion, non potevano far altro che attendere di venir salvati e precipitavano in un caos sempre più spietato.
    Non avrebbe saputo dire quando tutto fosse cambiato o cosa avesse scatenato la realizzazione che doveva andare avanti. Realizzare cosa accadeva intorno al 'Barone', una figura rivoltante che dominava Hollow Bastion per via dei suoi agganci e dei piantagrane che lo seguivano? Incontrare Sora e rendersi conto che le persone potevano ancora lottare per qualcosa di alto, arrivando a sacrificare se stesse per le persone che amavano? Rischiare di morire al fianco del padre di Darian?
    Era impossibile da capire. Sapeva solo che quando si era trovato davanti Norrington, derelitto e abbattuto, il ritratto di un uomo che viveva perseguitato dai propri errori tanto quanto lui, Evan non aveva avuto la forza di esigere la sua vendetta. Il suo cuore continuava a impazzire, a chiedersi se avesse fatto bene a lasciarlo andare. Le conseguenze della sua pietà, forse, non le avrebbe mai conosciute.
    Evan non avrebbe potuto sapere cosa quella notte avrebbe portato. Non sarebbe stato presente nella fuga di Elizabeth Swann, quando Norrington, piazzato al comando dell'Olandese Volante, avrebbe finalmente trovato la risposta alla propria domanda. Poteva solo sperare, mentre apriva stancamente la porta di casa, di aver preso la decisione giusta.
    Si chiuse di scatto la porta alle spalle, guardando con tanto d'occhi il visitatore che si trovava davanti. “Cosa ci fai qui?” chiese. Non ebbe l'istinto di prendere la pistola.
    Raggomitolato e poggiato al muro, Nines si era in qualche modo introdotto a casa sua. Lo guardò spaventato, artigliandosi le ginocchia. “Ho seguito il mio cuore...” disse in un sibilo. “E dopo non sapevo dove andare...”
    Evan non ricollegò subito il discorso. Sussultò. “I bambini?!”
    “Stanno bene.” mormorò Nines. “Io... li ho lasciati a Gilbert Walker. Ma ho paura...” si cinse di più le gambe. “Se la Matriarca scopre che ho di nuovo aiutato l'Esercito di Sora...”
    “Potevi andare con lui.” disse Evan, sedendoglisi accanto. “Non ti avrebbe fatto niente, Nines. Sarebbe stato solo felice, ti avrebbe protetto.” Sbuffò, facendo spallucce. “E saresti stato molto più al sicuro dentro la Barriera che qui.”
    “Ho schermato il mio segnale.” disse Nines. “Non mi troveranno se me ne sto buono.”
    “Okay...” Evan sospirò. “Resta pure quanto vuoi, Nines.”
    Sentì lo sguardo del ragazzo su di sé. Si voltò verso di lui e lo vide con un'espressione empatica in volto. “La lettura delle sue onde cerebrali indica una forte malinconia e percepisco delle vibrazioni di stress nella sua voce.” Lui gli rispose con una smorfia. “Ehm... mi sembra molto triste, Comandante.”
    Evan chinò il capo. “Non so se è la parola giusta.” ammise. “Ho chiuso un capitolo che mi faceva male... da molti anni. So che dovrei esserne felice. Ma non so se l'ho chiuso nel modo giusto.”
    “Posso fare qualcosa per lei?” chiese Nines. “So che non siamo in confidenza, ma se vuole parlarne-”
    “Ti ho già detto che puoi darmi del tu.” rispose Evan. Gli scompigliò i capelli. Erano setosi, morbidi, innaturalmente naturali. Non sapeva come definire Nines, sapeva solo che sembrava molto più umano di quanto volesse dire lui stesso. “E... non saprei cosa dirti, onestamente. Non credo di riuscire ad esprimerlo a parole, al momento.” si raggomitolò a propria volta, cingendosi le gambe. “Mi sento solo stanco. Stanco come non mai.”
    “È naturale.” disse Nines. “Si è- Ti sei appena liberato di un forte stress. La mente ha bisogno di riprendersi.”
    “Allora ti chiederei di lasciarmi dormire.” disse Evan, con un sorriso incerto. “Parliamo meglio domani.”
    Nines annuì. “Rimarrò di guardia. Se domattina hai bisogno di me mi troverai sul tetto, devo ricaricare la batteria.” spiegò, con tutta la calma e la naturalezza del mondo. Immaginava che per lui fosse una cosa normale, in fondo – ma immaginava già la faccia degli abitanti di Port Royal se avessero visto un ragazzo con abiti del tutto anacronistici stendersi sul tetto di casa sua a fare chissà cosa. Se non altro era un pensiero divertente. Chiuse gli occhi, immaginandosi la scena. Chiuse gli occhi, senza accorgersi di andare alla deriva. “Comand- Evan?” lo richiamò Nines. “Evan...?” ma lui non gli rispose. Gli capitava di rado di addormentarsi così, come un sasso, senza neppure rendersi conto di ciò che lo circondava.
    Poco gli importava che Nines appartenesse all'Esercito di Fastus: sentiva di potersene fidare a tal punto. E in quel momento si sentiva così solo, perso nel dolore di quella faticosa liberazione da un antico fardello, da avere un gran bisogno di un amico.
    Persino un membro dell'Esercito di Fastus.
    Non si accorse che Nines, con qualche difficoltà, lo portò fino al suo letto cercando di accomodarcelo senza svegliarlo. Evan non era lì, in quel momento.

    Correvano a piedi nudi sul molo, attenti a non scivolare, inseguendosi e ridendo. Erano già caduti in acqua diverse volte, ma dopotutto sapevano nuotare; inzaccherati e coi vestiti fradici, il loro livello sociale indistinguibile, lui e Nate si erano coalizzati contro Paul con l'intento di far cadere anche lui dal molo, ma era tanto più robusto di loro e dovevano collaborare; alla fine il ragazzone inciampò a cadde in acqua, accompagnato dalle loro fragorose risate, e ne emerse imprecando a minacciandoli di annegarli entrambi.
    Evan rideva fino alle lacrime, anche quando Paul riuscì ad afferrarli entrambi per le caviglie e li trascinò in acqua. In quel punto ormeggiavano le barchette dei pescatori e l'acqua era più bassa, dunque non rischiavano certo di annegare.
    Ancora ridendo, Evan risalì sul molo. Per quanto tempo avevano giocato in quel modo? Per fortuna c'erano solo sua madre e la signora Carter, che si limitavano a guardarli con divertita rassegnazione. Evan si guardò intorno cercando le scarpe, quando si rese conto di un'altra persona. Sembrava un ragazzino della loro età, con ribelli capelli castani e gli occhi completamente bianchi, la sua figura tremolante come se la stesse guardando da sopra uno specchio d'acqua.
    Il ragazzo lo guardò. Sembrava così triste, come se dovesse piangere da un momento all'altro. Gli si avvicinò, seguito a breve distanza anche da Nate e Paul.
    “Ehi.” lo richiamò, tendendogli la mano. “Stai bene? Come ti chiami?”
    Il ragazzino pianse.
    “Mi dispiace, Evan...” mormorò. “Mi dispiace tanto...”

    Sussultando, con le guance rigate di lacrime, Evan si svegliò di soprassalto.
     
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    Si svegliò con un forte dolore alla schiena. Erano diversi giorni che le cicatrici avevano ripreso a dolergli e bruciargli quasi allo stesso modo di qualche mese prima, quando ancora né Nate né Eileen erano entrati nella sua vita. Aveva ricacciato il pensiero indietro il più possibile; ma ora che i prigionieri erano stati liberati ed erano in viaggio verso Tortuga con Fortune, esso tornò a bussare nella sua mente con prepotenza. Il sogno che aveva fatto era solo uno dei tanti che avevano flagellato la sua notte; gli era rimasto impresso più degli altri per via della presenza di Sora. Le sue parole, riecheggianti e sofferenti, che continuavano a ripetere quelle scuse come un ritornello. Da quando era tornato a Port Royal ed era diventato una presenza quasi costante dei suoi sogni aveva continuato a scusarsi e chiedergli perdono. Aveva anche cercato di entrare in contatto con lui, ma era troppo debole per comunicare, forse. Gli rimanevano solo domande su domande e la fastidiosa certezza di non potervi porre una risposta.
    Nell'alzarsi a sedere sentì il cigolio del letto. Non ricordava quando fosse andato a dormire la notte prima, era tutto un guazzabuglio confuso di pensieri e ricordi di quella lunga e attesa discussione. Le parole che Norrington aveva pronunciato, la faticosa e dolorosa accettazione del fatto che ormai il tempo fosse passato e che non restava altro ad entrambi che andare avanti, gli davano ancora quella sensazione di pesante leggerezza. Il mare che aveva creduto di domare lo aveva visto per tutti quegli anni saldamente ancorato ad un basso fondale; ma adesso l'ancora si era levata e lui si sentiva andare alla deriva, la sua testa così leggera da girargli ogni volta che cercasse di formulare un pensiero. Si portò le mani alla fronte, con un pesante sospiro. Adesso non sapeva più cosa fare.
    Tornare a Radiant Garden era l'idea principale. Avrebbe dovuto affrontare molte domande ed era incerto sulla risposta che avrebbe dovuto dare; non meritava di riabbracciare né Nate né Eileen dopo averle messo addosso un simile peso. Aveva paura di affrontare Darian dopo averlo abbandonato in quel modo, in lacrime in mezzo al naviporto come un bambino che supplicasse il padre di non andare via. Era cosciente di rappresentare per quel ragazzo un punto di riferimento una figura a tratti paterna, a volte più un fratello maggiore, e nonostante questo lo aveva lasciato comunque lì da solo. Non che lo avesse fatto per capriccio, inutile darsi una simile colpa. La verità era che, se fosse rimasto a Radiant Garden un singolo altro giorno, di lui sarebbe rimasto solo un cadavere con la testa sfondata. La pistola non avrebbe fallito una seconda volta e non ci sarebbe stato intervento miracoloso a impedirgli di morire. Era tutt'altro che fiero del gesto estremo che era stato sul punto di compiere, ma non intendeva condannarsi e battersi il petto per esso. Sapeva cosa significasse e aveva scelto di correre ai ripari, anche se temeva che potesse essere troppo tardi. La sua capacità di guidare i Keyblader e un intero esercito era in bilico e sentiva fosse sua precisa responsabilità evitare che la sua incompetenza mettesse in pericolo le persone a cui voleva bene. Avrebbe potuto scegliere altri metodi, chiaramente. Avrebbe potuto parlarne con Eileen, per esempio. Cercare l'aiuto delle persone che nel tempo aveva imparato a ritenere amiche, come Kattos o Gilbert; ancora non riusciva a spiegarsi il perché di tanta reticenza. Aveva scelto di non parlare con nessuno e, una volta sentito lo scatto di quella pistola che per poco non gli spaccò un dente, si era direttamente messo in fuga come se potesse lasciarsi alle spalle quel momento di terrore.
    Si stropicciò gli occhi e si alzò. Aveva ancora i vestiti della sera prima. Le sue scarpe erano poggiate con cura ai piedi del letto. Il suo naso captò presto un profumo gradevole che proveniva dalla cucina, cosa che gli fece strabuzzare gli occhi; si rese conto che forse non era solo in casa e il cappotto era appeso da un'altra parte, con dentro la pistola. Sfrecciò subito fuori dalla stanza, già pronto ad attaccare qualunque invasore.
    “Buongiorno!”
    Nines lo salutò, la voce allegra e gioviale, mentre stava affettando qualcosa su un tagliere. La casa era messa in ordine e una pentola bolliva sul fornello a legna, ceppi scoppiettavano vivaci all'interno della cucina.
    “Ah.” borbottò Evan con la voce impastata. “Mi ero... dimenticato di te.”
    Nines fece una smorfia. “Comprensibile. Eri piuttosto stressato ieri sera.” Evan fece del proprio meglio per non vedere con quanta velocità affettasse le verdure senza tagliarsi. “Siediti pure, è quasi pronto.”
    “E quelle?” indicò le verdure.
    “Sono per la signora Gardner!” rispose lui con un gran sorriso. “È stata molto gentile a darmi le indicazioni su come cucinarti qualcosa e ho scelto di ripagarla diminuendole il carico di lavoro.”
    Lo stomaco di Evan brontolò troppo forte perché potesse vergognarsi di avere qualcuno a cucinare per lui con tutta quella familiarità. “E cosa stai preparando?”
    “Una zuppa di verdure, patate e cacciagione fresca.” disse Nines. “Stai trascurando molto i tuoi bisogni alimentari in questo periodo, hai bisogno di un apporto sostanzioso di proteine e fibre, oltre che di diverse vitamine, ma per quelle ti ho già preparato quella macedonia!” indicò una scodella piena di frutta tagliata in cubetti e spicchi ordinati; riconobbe arance e mele, ananas, papaya, mango. “Mostri anche dei segni di lieve disidratazione.”
    Che ansia. “Grazie...” si strinse nelle spalle e portò di fronte a sé la macedonia. Era stata tagliata in modo talmente preciso da sembrargli innaturale. La frutta era fresca, ben lavata, succosa.
    Nines gli posò una brocca d'acqua davanti. “Devi berla tutta.”
    “Così però sembri mia madre.” Evan sospirò, versandosene un bicchiere. “Non morirò per questo, Nines.”
    “Mi dispiace risultare invadente.” disse Nines. “Prendermi cura degli altri fa parte dei miei protocolli.”
    Evan sbuffò un sorriso conciliante. “Figurati.” Addentò un altro pezzo di frutta. “Non sono... abituato, tutto qui.”
    Nines ridacchiò. “Spero che ti faccia piacere.”
    “Sì e no. L'idea che qualcuno si sbatta per me facendomi le faccende di casa e altro mi mette un po' a disagio.” Si versò dell'acqua nel bicchiere. “Ma grazie per averlo fatto.” Gli sorrise e Nines parve contento dell'apprezzamento. Gli sovvenne però un dubbio non indifferente, che lo fece fermare con un pezzo di frutta a pochi centimetri dalla bocca. “Nines...” domandò.
    Lui si voltò a guardarlo. “Sì?”
    “Come hai pagato tutta questa roba?” domandò, alzando le sopracciglia.
    “Ho fatto qualche lavoretto per i negozianti e mi hanno regalato tutto.” Rispose Nines. Evan lo guardò con tanto d'occhi e si voltò verso la finestra.
    “Ma che ore sono...?” domandò, sconvolto.
    “Quasi le due.” disse Nines. “Hai dormito per circa dodici ore.”
    Impallidì a quelle parole. Erano anni che non dormiva così tanto e di solito non era mai per un buon motivo; ipotizzò che la stanchezza che lo aveva colto dopo aver parlato con Norrington avesse reclamato il proprio prezzo. Forse anche il crescente dolore alla schiena era da elencare tra le cause di quel sonno prolungato, dal quale per giunta non si era risvegliato per nulla rinvigorito. La testa gli doleva, la schiena continuava a mandargli piccole scariche di dolore che si irradiavano fino ai gomiti e alla nuca, rendendogli particolarmente faticoso anche solo alzare la testa. Era diverso dal solito dolore che lo prendeva in quelle occasioni, meno lancinante, ma continuo, con la crescente sensazione che qualcosa stesse scalpitando dall'interno per liberarsi.
    “Ieri notte hai avuto diversi incubi.” disse Nines finendo di sistemare la verdura tagliata. “La lettura delle tue onde cerebrali mi ha rivelato che hai sognato molto. Forse è anche per questo che ti senti così affaticato, oggi. Ti consiglio di restare in casa e rilassarti, visto che hai portato a compimento tutto quello che volevi fare.” Evan si stava lentamente rassegnando all'idea di essere sotto le cure di una sorta di apprensiva balia cibernetica, ma non poté far altro che sbuffargli un sorriso di rimando e continuare a mangiare la sua macedonia. Non mangiava frutta così buona da tantissimo; o forse era anche il fatto che non si era mai soffermato a mangiare qualcosa da parecchio tempo, sempre di corsa e sempre con la mente indaffarata in qualcosa. Sentiva di aver perso peso, in quei mesi, forse anche massa muscolare.
    Un disastro.
    “Avevo intenzione di uscire, in realtà.” disse Evan. “Dopo, tranquillo. Mi prenderò un po' per digerire tutto quel ben di Dio che stai cucinando. Spero non sia tutto per me.”
    “Ne ho messo un po' anche per me.” disse Nines. Alla sua occhiata stranita oppose una pronta risposta. “Posso assumere cibi e trasformarli in energia, se magari non dispongo di abbastanza luce per ricaricare le mie batterie solari.” Riempì abbondantemente una ciotola di stufato; nonostante avesse fatto fuori un'intera scodella di macedonia, Evan sentì una fame incredibile. “Posso anche collegarmi alle reti elettriche per ricaricarmi.”
    “Adatto ad ogni circostanza.” Deglutì a vuoto mentre osservava la ciotola. Il profumo era delizioso.
    “Spero sia di tuo gradimento.” Nines riempì una ciotola con meno stufato per sé. “Non fare complimenti!”
    Evan non perse tempo e divorò la propria porzione come se non mangiasse da giorni – cosa anche vera, tecnicamente; dopo la frugale colazione precedente il suo viaggio a Tortuga, aveva mangiato e bevuto davvero poco. Era buono anche più di quanto sperasse, tutto cotto alla perfezione... forse anche troppo. Sentì lo sguardo curioso di Nines su di sé, in probabile attesa di un responso sulla propria cucina.
    “'Uono.” Bofonchiò a bocca piena. “'awweo.” mandò giù rumorosamente. “Buono, davvero.” si corresse, con un'espressione un po' imbarazzata. Si sentiva un bimbetto che non sapeva come comportarsi a tavola, ma gli era venuta una fame assurda. Forse anche quella era da imputare all'aver risolto la situazione con Norrington.
    “Meno male!” esclamò Nines con un sospiro di sollievo. “Sai, ho messo tre milligrammi di sale in più... e temo di non aver tagliato la quantità giusta di carne.”
    Evan scoppiò a ridere. “Nines!” Esclamò, in tono amabile. “La cucina è raramente bisognosa di una simile precisione. Anzi, è proprio l'imperfezione a rinnovarla e trasformarla di continuo!” si versò una generosa quantità d'acqua nel boccale. “A volte un errore diventa un piatto del tutto nuovo. Non sentire il bisogno di seguire le ricette alla lettera.”
    “Evan, io non ho papille gustative...” disse Nines, con una smorfia triste. “Parte della cucina sta anche nell'assaggiare. Quando assumo del cibo, la mia lingua misura la sua composizione.”
    “Come la mia.” Gli sorrise. “Posso capire se un piatto e troppo o poco speziato, troppo crudo o troppo cotto, o semplicemente buono. E so che stai per dire!” Mise una mano avanti. “Pensi che quello che fa il tuo corpo sia diverso perché, a differenza mia, tu sei stato creato per analizzare e studiare. Ma ragionaci bene...” gli lanciò uno sguardo d'intesa, senza smettere di sorridergli. Quel giorno gli risultava così... naturale. “Le differenze tra noi stanno solo nella precisione, alla fin fine. In un certo senso, anche tu percepisci i sapori o gli odori, solo che lo fai in modo diverso da me.” Era sicuro che chiunque avesse un minimo di esperienza sul campo della robotica gli avrebbe riso in faccia per un discorso così pieno di inesattezze, ma dal discorso che aveva fatto con Nines sull'Endeavour aveva capito qualcosa di lui; stava cercando un posto, da qualche parte. Un posto che non aveva tra gli altri androidi e nemmeno tra gli umani.
    Nines ridacchiò. “Quello che dici è sbagliato sotto così tanti punti di vista... però mi conforta.” Si raggomitolò sulla sedia, lo sguardo perso in un punto indefinito del tavolo. “I miei sensi imitano i vostri. Quello che percepiscono è sempre sotto forma di dati tangibili, controllabili, analizzabili. Solo che... non vengono processati allo stesso modo. Rimangono dati. Non entrano in comunicazione con il mio cervello. Non stimolano ricordi, inferenze. È questo che mi manca. E che ti invidio.”
    “Io ci capisco poco.” ammise Evan. “Potrai intuire da te che non sono molto ferrato con la tecnologia, so giusto quello che mi serve.” posò la ciotola vuota, dopo essersi scolato anche tutto il brodo. Senza troppo riguardo per il galateo si passò una manica sulla bocca, con un sospiro soddisfatto. “Guardandoti, però, non riesco a pensare che tu sia davvero così diverso da me. Quanti anni hai?” domandò.
    “Diciotto.” disse Nines. Si grattò la nuca. “Sono passati circa trentaquattro giorni dalla mia attivazione, se è questo che ti chiedi.”
    “Cosa ti viene in mente se senti l'odore di questo stufato?”
    Nines sembrava confuso. “La composizione chimica, le molecole di...”
    “Ah-ha!” lo bloccò, facendolo sobbalzare. “Vedi, è questo il punto. Ti soffermi su quello. Un odore arriva al tuo naso e tu memorizzi da quali molecose...”
    Molecole.”
    “Memorizzi di quali... molecole... è composto.” continuò, imbarazzato. Accidenti, si sentiva raramente così ignorante, ma tra lui e Nines c'era un divario tecnologico ed evolutivo di almeno mezzo millennio! “Però, è anche la prima volta che lo senti, non è così?” Nines annuì. “E quando lo sentirai di nuovo, invece di vederne solo la composizione, potresti anche ricordare questa giornata. Tutti i lavoretti che hai fatto per i negozianti, le parole che ti sei detto con loro, il fatto che hai scoperto che capra ignorante sia il Comandante di Radiant Garden...” ridacchiò. Nines gli fece eco. “E lo stesso varrà per me. Quando sentirò ancora questo odore mi tornerà in mente questo giorno. L'olfatto funziona così. È uno dei sensi meno calcolati, eppure uno di quelli più affascinanti.” Si poggiò allo schienale. “I sensi e ciò che essi ci trasmettono cambiano con la vita e con l'esperienza, Nines. Anche se fisicamente hai diciotto anni, a conti fatti hai vissuto per trentaquattro giorni. Questo vuol dire che hai un'infinità di cose da ascoltare, annusare, gustare, toccare, vedere. Ed esse assumeranno significati sempre nuovi nel corso degli anni.”
    Nines sembrava dubbioso. “È così semplice?” domandò. “Provare qualcosa come gli esseri umani...”
    “Perché no?” Disse Evan. “Non vedo perché debba essere complicato. Il solo fatto che tu ti faccia queste domande ti rende molto più di quanto tu creda, Nines. Forse non sei umano, ma non sei nemmeno una macchina e basta. Quello che provi per le persone con cui lavori, ad esempio... è molto umano. Così come il motivo che ti spinge a rimanere con Fastus pur soffrendone.”
    “Vorrei che le Toha passassero dalla parte dell'Esercito di Sora.” disse Nines. “Ma negli ultimi tempi hanno finalizzato un accordo con la Flotta Indomita di Fal'lundan. Non c'è modo che passino dalla vostra... anche se lo vorrei tanto. Tantissimo. Non voglio doverti affrontare, Evan. Se scoprissero che sono qui davanti a te, mi ordinerebbero di ucciderti.”
    Evan lo guardò attentamente. Non si sentiva minacciato da lui, né voleva minacciarlo. “E tu lo faresti?”
    “No.” La risposta di Nines arrivò veloce, come se non ci avesse neppure pensato. “Non voglio farlo. Tu...” si strinse più forte alle gambe. “Tu non meriti di morire, Evan. Nessuno... nessuno dovrebbe morire così.”
    “Siamo in guerra.” disse Evan. “Vorrei che non lo fossimo, ma è ancora questa la nostra realtà.”
    Non ne aveva nemmeno conosciuta una diversa; dalla guerra contro i pirati a Port Royal era passato alla guerra contro gli Heartless e poi contro Fastus. I suoi ultimi dieci anni di vita erano stati caratterizzati da continui conflitti, combattimenti, addii. Una realtà che non voleva far conoscere a Nate, mai. Era il motivo per cui si era impegnato così tanto per proteggere i mondi, risolvere le battaglie contro l'Esercito di Fastus... prima di crollare del tutto sotto il peso di così tante responsabilità.
    “Cosa farai adesso?” chiese Nines. Aveva insistito per lavare i piatti ma Evan glielo proibì – aveva già fatto fin troppo per i suoi gusti, non era giusto che continuasse a sfruttarlo così.
    Posò l'ultimo piatto pulito, pensieroso. Evitò di pensare che lavare i piatti, a Port Royal, aveva un significato molto diverso rispetto a Radiant Garden. “Vorrei tornare.” ammise. “Superata l'angoscia dei primi giorni, sarei già tornato prima. Ma tutta la situazione di Beckett e dei prigionieri di Fort Charles mi ha spinto a rimanere.”
    “Sono sicuro che tuo figlio sarà felice di rivederti.” disse Nines, ma aveva uno strano tono. “E anche la tua ragazza!”
    Evan gli rivolse un'occhiata giocosa. “Ti mancherò?”
    “Sei una delle poche persone con cui abbia fatto una conversazione decente.” disse Nines. “Per un'Intelligenza Artificiale avanzata come me è difficile trovare spunti per pensare, ma tu me li hai dati. Senza inquietarmi.”
    Alzò le sopracciglia. “Inquietarti? Perché avrei dovuto?”
    Nines esitò, spostando il peso da un piede all'altro. “C'era... una persona, a Frontier.” Le sue dita si strinsero sul tavolo. “Ti prego di mantenere assoluto riserbo su quello che sto per dirti, va bene? È una... confidenza.”
    “Certamente.” annuì Evan, sentendo un'inaspettata tensione salirgli in petto. “Puoi dirmi tutto quello che vuoi, Nines. Se ti serve un qualche aiuto, posso anche provare a dartelo.” Non occorreva certo precisare che non avrebbe fatto nulla che andasse contro l'Esercito di Sora e a giudicare dalla sua espressione doveva saperlo anche lui. “Di che persona si trattava? Sembra averti scosso.”
    “Non saprei.” ammise Nines. “E per un'IA come me, l'incertezza è fonte di grande frustrazione. Era... molto alto, ammantato di nero. Non era Inteus.” aggiunse in fretta. “Sappiamo com'è fatto e non si avventura mai lontano da Fastus. Non in un modo in cui possiamo riconoscerlo, almeno.” Evan si rese conto che Nines stava centellinando informazioni preziose sul loro nemico; ora sapeva che Inteus non abbandonava mai Fastus e che se lo faceva si aggirava in borghese, magari come una persona qualunque. Era il componente più misterioso e inquietante di tutto il suo Esercito – una figura colossale, ricoperta di un mantello nero che non lasciava intravedere nemmeno un millimetro del suo volto. Quasi nessuno di loro l'aveva incontrato, fatta eccezione per Kouichi, che era sopravvissuto per raccontarlo per puro miracolo. Era strano come solo il suo nome bastasse a fargli sentire un'incomprensibile preoccupazione.
    “Chi era allora?” La domanda scaturì più come un modo per scacciare quell'ansia crescente.
    “Non si è presentato.” rispose Nines. “Ero di ronda nella zona residenziale di Frontier quando l'ho visto, seduto su una panchina. Mangiava un ghiacciolo di koran. Un frutto di un pianeta desertico.” spiegò. “Mi sono avvicinato per dirgli che è obbligatorio girare a volto scoperto per Frontier... e poi mi sono trovato seduto accanto a lui a parlare. Diceva cose interessanti. Non riuscivo a smettere di ascoltarlo.”
    Evan si mise a ridosso del piano cottura, incrociando le braccia. “Del tipo?”
    “Di questa guerra. Di come le Toha danzino tra gli schieramenti infischiandosene della morale... e in qualche modo gli ho parlato di me. Della mia programmazione, del mio scopo primario. Mi sentivo obbligato a dirgli tutto... tutto. Mi sentivo completamente nudo davanti a lui, come se mi avesse aperto e stesse esaminando le mie componenti una ad una.” distolse lo sguardo. Non sapeva come un sofisticato androide potesse esprimere disagio e vergogna, ma doveva avvicinarcisi. “Mi ha detto che ho fatto bene ad attaccare il mio creatore, che avrei dovuto addirittura ucciderlo. Mi ha riempito la testa di cose come che...” assottigliò le labbra. “Io ho poteri che gli organici non hanno e che se volessi potrei sfruttarli. Mi ha detto che sono libero... ma il modo in cui me l'ha detto mi ha fatto paura. Ha stuzzicato qualcosa, in me...” si portò una mano al petto, stringendosi forte la divisa nera. “Quello stesso impulso che mi ha spinto all'autoconservazione. Sono... sono andato in confusione, dicono che ho iniziato a urlare e che avevo perso il controllo. Io non ricordo più niente, dopo le sue parole. Mi sono riattivato ore dopo nel laboratorio di diagnostica, con il familiare discutere di scienziati che pensavano di smantellarmi.”
    Evan sbuffò. “Sono sempre così veloci a pensare di gettarti via.” Disse con palese indignazione nella voce. “Nemmeno fossi un tostapane rotto. Che cazzo.” si portò una mano alla fronte. “Che c'è?” vide la sua reazione stranita.
    “Credo di non averti mai sentito imprecare.” disse Nines. “Non così, almeno.”
    “Lo faccio solo quando sono parecchio frustrato da qualcosa.” Fece uno sbuffo divertito. “Come l'idiozia di tutti quei cervelloni che vogliono solo smontarti. Ogni volta.”
    “A loro discolpa, il mio comportamento era anomalo.” disse Nines. “Quell'uomo... non c'era. Lo vedevo solo io. Lo hanno registrato solo i miei sensori e nemmeno in modo troppo chiaro. I dottori che mi seguono hanno detto che non ha senso!” Si strinse nelle braccia. “Io non sogno, Evan. I miei processi cognitivi non mi permettono di vivere esperienze di questo tipo, né sogni, né immaginazione, né allucinazioni! Eppure solo io ho visto quell'uomo e ha parlato di cose che io non potevo sapere, che non figuravano nemmeno nei database di Frontier. Ho avuto un incontro assurdo con una persona che nessun altro ha mai visto...” Sospirò, scuotendo lentamente la testa. “Mi dicono tutti che dovrei evitare di cercarlo, ma ho bisogno di capire cosa mi abbia fatto. Ho cercato di attaccare dei civili, mentre ero in quello stato. Ha... ha disattivato in qualche modo i miei inibitori di combattimento.” Sentì lo sguardo di Nines su di sé per un lungo attimo. “La cosa non ti preoccupa.”
    “Pensavo che avessimo ormai appurato che nessuno dei due intenda nuocere all'altro.” gli sorrise. “E che tu non voglia fare del male a nessuno. Quello che è successo è stato un incidente, per fortuna senza vittime.” Si avvicinò a lui e gli diede una gentile scompigliata ai capelli setosi e morbidi. “Hai fatto del bene per le persone di Port Royal, oggi. Ti sei preso cura di me, il Ricercato Numero Uno – o due? - di Fastus. La tua affiliazione non conta.” Gli mise le mani sulle spalle. “Tu sei buono, Nines. Sei una brava persona. E non ci sono abbastanza inquietanti tizi incappucciati nell'universo per cambiarti.” Per quanto riguardava l'uomo in sé non avrebbe saputo offrirgli aiuto: ne sapeva quanto e meno di lui. Non c'erano mai state apparizioni del genere nel Sistema, che lui sapesse.
    Nines fece una strana espressione; sembrava in qualche modo commosso. Con un piccolo slancio lo cinse in un abbraccio forte e sincero, affondando il viso nel suo petto e stringendosi nelle spalle per approfondire il contatto, senza fargli male; ed Evan lo ricambiò, non aveva paura che potesse fargli del male in alcun modo. Quei famigerati inibitori di combattimento non si erano mai disattivati in sua presenza, Nines non aveva mai cercato di nuocergli in alcun modo.
    Sentiva di potersi fidare di lui.
    “Grazie, Evan.” Le dita di Nines si strinsero sulla sua camicia. In quel momento sembrava molto poco la macchina inanimata e senza emozioni che aveva paura di essere, gli sembrava un ragazzino non dissimile da Darian o Tobio, bisognoso di rassicurazioni e incoraggiamento. “Non avrei mai pensato che a rivolgermi queste parole sarebbe stato qualcuno dell'Esercito di Sora...” Non che capisse perché una simile distinzione, almeno all'inizio; forse per lui le differenti affiliazioni erano molto più importanti. Il ragazzo si staccò da lui con un'espressione un po' imbarazzata. Si allontanò e gli diede le spalle, mettendo le mani in tasca. “Spero che non mi chiedano mai di attaccarti, Evan. Quando questa guerra finirà, voglio incontrarti di nuovo, voglio anche rivedere il signor Gilbert. Vorrei cucinare ancora. Non so se sia la mia programmazione o un barlume di umanità, ma... mi è piaciuto cucinare per te, e aiutare quelle persone oggi.”
    Evan annuì con approvazione. “Allora ti consiglierei di fare un giro nei campi dei rifugiati.” Andò a mettere la giacca. “Sono sicuro che porteresti il sorriso sulle labbra a molti.”
    Nines parve pensieroso. “I campi sono spesso gestiti da voi, però.” Fece una smorfia. “Ci ho pensato, sai. Specialmente dopo Shibuya. È il mio compito in fondo, sono stato creato per prendermi cura degli altri. La Matriarca non lo permetterebbe mai.”
    “La scelta è tua, Nines.” Si diede una sistemata. “Ma non tutte le scelte sono prive di sacrifici. Forse, seguire il tuo desiderio di aiutare il prossimo potrebbe allontanarti dalle Safeguard... ma è una decisione che puoi prendere solo tu.”
    “Dove stai andando?” chiese, vedendolo aprire la porta.
    “Alla libreria.” rispose Evan. Il suo viso si fece malinconico, ma deciso. “C'è una cosa che devo assolutamente fare, prima di tornare a casa.”



    Ciò che lo accolse all'ingresso di Gallaway Books non fu quello che sperava. Non fu travolto dal fiume di ricordi che aveva atteso nel momento in cui aveva girato la chiave nella toppa, né dal familiare, confortante profumo della carta. Il cigolare di legno rigonfio risuonò sotto i suoi passi; un odore pungente e acre, umido e fastidioso, gli avvolse le narici facendogli voltare la testa.
    Aveva avuto il sospetto che fosse andata così, nel momento in cui aveva visto la libreria chiusa senza che nessuno ci passasse. Il lucchetto con cui l'avevano sigillata era già vecchio e coperto di salsedine, intonso come se nessuno si fosse premurato di metterci le mani una singola volta da quando lo avevano piazzato; e non aveva tardato a notare che le finestre fossero bucate.
    Mantenere una libreria in una città portuale era complicato, la carta era fragile e senza le cure adeguate ci si trovava con un mucchio di cartaccia inservibile. Esattamente quello che era successo ai libri di suo padre.
    Evan si addentrò nella libreria abituandosi al puzzo di umido. Il suo cuore era pesante, gli angoli della bocca impossibilitati a esprimere una qualsivoglia espressione che non fosse piena di tristezza e delusione. Passò le dita sugli scaffali, sui quali si potevano già vedere piccole formazioni di muschio e muffa dove la luce del sole non poteva arrivare. Emise un lungo sospiro, come di chi camminasse sotto un enorme macigno, i suoi occhi scorrevano sui titoli che ancora occupavano i loro posti, così come suo padre li aveva lasciati. Non tutti, chiaramente. Nel girare tra le varie sezioni della libreria, una grossa stanza rettangolare inframmezzata da due file di librerie più un'altra a ridosso di ciascun muro tranne quello dell'ingresso e dove si trovava la cassa, notò in fretta che la libreria era stata saccheggiata. Molti dei volumi più preziosi erano stati trafugati, altri erano stati gettati maldestramente in terra senza rispetto.
    Si chinò a raccogliere un libro da terra, tenendolo con cura tra le mani. Ci avevano camminato sopra e non riusciva a leggere il titolo, ma sembrava un racconto d'avventura. Lo posò sullo scaffale, non tardando a notare come pochi anni di umidità avessero distrutto gran parte dei libri; copertine e carta erano stati invasi dalla muffa o divorati dagli insetti. Se a questo si aggiungeva il fatto che gli altri fossero stati trafugati per essere ormai portati chissà dove, il quadro era completo: Gallaway Books non esisteva più.
    Si chiese perché non buttare giù il palazzo e basta e farci qualcos'altro, a questo punto; l'idea che avessero tenuto in piedi la carcassa del negozio di suo padre senza farci nulla risultava per qualche motivo ancora più offensiva. Forse sua madre si era opposta fino all'ultimo e, con l'arrivo di Beckett e il suo totale disinteresse verso qualsiasi cosa che non fosse la sua stupida crociata, la faccenda era stata dimenticata. Proseguì fino al banco; la cassaforte era stata aperta. Era sicuro che fosse stato suo padre a svuotarla, però.
    Si era aspettato ricordi e conforto, ma aveva trovato solo abbandono. La vista di quel luogo così ridotto gli riempì il cuore di un misto incomprensibile di emozioni che oscillavano dalla rabbia al rimorso, dall'amarezza alla rassegnazione. Suo padre non avrebbe mai abbandonato la libreria, così preziosa per lui nonostante non fosse la principale fonte di guadagni della loro famiglia, se non si fosse sentito costretto a imbarcarsi sulla prima nave a disposizione per trovare quello sciocco di suo figlio; e sua madre non avrebbe continuato a soffrire fino ad ammalarsi, lasciandosi morire da sola senza più nessuno della sua famiglia che si prendesse cura di lei, magari ancora con lo sguardo rivolto alla porta nella speranza che gli uomini della sua casa tornassero almeno per l'ultimo saluto. La devastante realtà delle conseguenze delle sue scelte era di fronte a lui, in ogni libro mancante e centimetro di muffa, nello sguardo stanco di Mary alla taverna, nel vuoto insopportabile della sua vecchia casa.
    Eppure... questo era ciò che rimaneva. La vita era andata avanti anche senza di lui, senza di loro. Da che ne sapesse era l'ultimo Gallaway esistente al mondo. Non aveva notizie dei suoi parenti in Inghilterra, sebbene non si fosse mai premurato di cercarli. Da parte di madre sapeva di avere una pletora di cugini e almeno un paio di zii, una parte gallesi e un'altra irlandesi; i suoi parenti paterni erano un po' inferiori di numero e a parte Albert Gallaway nessuno di loro aveva azzardato un viaggio all'estero. Ma come avrebbe potuto presentarsi davanti a loro? Di certo suo padre aveva scritto alla famiglia diverse volte, amava scrivere lettere e voleva sempre tenersi informato sul loro stato di salute; erano persone piuttosto istruite, ma non erano nobili né borghesi particolarmente benestanti. Sapeva che sua nonna avesse lavorato come governante per una Contessa, che l'aveva presa talmente in simpatia da insegnarle a leggere e scrivere così da coinvolgerla nel pettegolezzo e nei suoi intrighi di corte. Sua nonna aveva tramandato quel sapere, e dei bambini istruiti potevano fare molta strada in quel mondo.
    Tuttavia sua nonna era morta quando era ancora bambino e non l'aveva mai conosciuta. Avrebbe potuto fare uno sforzo... e prendersi tutti i rimproveri che avrebbe meritato, forse anche una porta in faccia. Ma quei giorni, quella solitudine di sei anni e l'ingresso prepotente di Nate nella sua vita avevano cambiato diverse sue priorità.
    Nate meritava una famiglia... in qualche modo avrebbe cercato di dargliene una.
    Adocchiò una delle scaffalature. Se ricordava bene era quella giusta. La afferrò per i lati e la tirò a sé con un gran strisciare di legno muffito, dunque la spinse lateralmente rivelando ciò che c'era dietro: una porta.
    Si sorprese che nessuno l'avesse notata; portava ad un piccolo sottoscala, talmente stretto e angusto da non potersi nemmeno definire una stanza. Gli sfuggì un sorriso nel vederla ancora perfettamente intatta e prese dalla tasca una chiave, che faceva parte del mazzo restituitogli dopo che aveva riacquistato tutte le sue proprietà dalla banca dieci giorni prima. La rigirò nella toppa con qualche inciampo e capriccio; la serratura doveva essersi rovinata per il disuso.
    La porta si apriva verso l'esterno; Evan la accostò ad una scaffalatura e si addentrò nella minuscola stanza, accendendo una piccola luce magica sulla spalla con uno schiocco delle dita. Il bianco bagliore rischiarò l'unico scaffale ancora immacolato di tutta la libreria, coperto per ulteriore precauzione da uno spesso drappo scuro. Avvicinò timidamente la mano ad esso e lo scostò appena, trattenendo il respiro con le dita tremanti; aveva paura che persino soffiarci sopra potesse rovinare tutto. Sotto quel velo, tutti interi e per nulla intaccati dal tempo o dall'umidità, c'erano diversi libri rilegati con cura, trattati con grande riguardo e semplicemente perfetti: la collezione privata di suo padre, volumi che teneva da parte perché gli piaceva rileggerli, o perché preferiva avere una copia extra dei suoi libri preferiti. C'erano opere teatrali, trascrizioni dal latino e dal greco, una Bibbia... almeno una trentina di volumi in totale. Esalò un sospiro di sollievo. Almeno quelli si erano salvati.
    Uno scalpiccio lo avvisò della presenza di qualcuno nella libreria; uscì subito dalla stanza. “Ti avevo detto di aspettarmi fuo-” Con sua sorpresa però non era Nines; lui era dietro un'altra persona, un uomo biondo e panciuto che aveva già visto qualche giorno prima. “Schultz?” ricordò, inclinando il capo di lato. “Che ci fate qui?” Quel giorno era vestito con giacca e farsetto color senape sopra una calzamaglia poco più scura.
    “Ha insistito per entrare.” disse Nines, mortificato. “Non sono riuscito a fermarlo.”
    “Perdonate la mia intrusione, Herr Gallaway.” Schultz fece un elegante inchino. “Ma quando ho visto la porta della libreria di vostro padre aperta e questo strano ragazzo messo qui fuori a far da palo mi sono preoccupato! Come se questa istituzione non avesse già sofferto abbastanza per l'incuria e la crudeltà altrui!” Aveva dimenticato, nel breve lasso di tempo in cui non l'aveva visto, quanto fosse teatrale ed esagitato quell'uomo. “E invece trovo voi a esaminare la vostra eredità. Molto più rincuorante.”
    “Non sono uno strano ragazzo...” borbottò Nines.
    “Con quei vestiti e i capelli bianchi sicuramente non sembrate di Port Royal.” Schultz lo guardò dall'alto in basso. “Siete per caso albino, ragazzo mio? Il sole non vi fa bene allora.”
    “Nines è un caro amico.” lo interruppe Evan. Il ragazzo parve parecchio sorpreso di sentirselo dire. “Non preoccupatevi di lui. Piuttosto, cosa volevate sapere?” Domandò. Gli sembrava abbastanza evidente che quell'uomo non fosse lì solo per fare due chiacchiere; ma non sapeva neppure cosa potesse rispondergli. C'erano tante cose che gli stavano frullando per la testa in quel momento, anche se non c'era traccia del fiume di ricordi che pensava di poter sentire. Da quando era entrato nel negozio di suo padre sentiva solo un'amarezza unita a una tristezza sempre maggiore. Il luogo che era stato il tempio della sua infanzia, dove aveva vissuto mille avventure improvvisandosi ora un cavaliere, ora un esploratore, ora un principe, non esisteva più. Viveva nei suoi ricordi, imperfetto e sempre più sbiadito.
    “Ciò che desidero sapere da voi, Herr Gallaway... è se intendiate riaprire questa libreria.”
    “Questa...” Evan abbassò lo sguardo. “Questa è una domanda che non mi aspettavo.”
    Aveva solo pensato di controllare in che stato fossero i libri. Magari prenderne qualcuno e portarlo a Radiant Garden, al sicuro dall'umidità e dall'incuria; Abo Schultz gli apriva una possibilità del tutto nuova, che il suo cervello andava elaborando a gran velocità. Si voltò verso lo stanzino, dove i libri erano rimasti in attesa tutti quegli anni. Un'idea, folle eppure l'unica davvero plausibile, prese finalmente forma.
    “Vedete...” Schultz continuò a parlare. “Una volta questo posto era ben più di un negozio. Era una culla di cultura, un salotto filosofico, oserei dire! Dopo la partenza di vostro padre è diventato pian piano un rudere. Frau Helena, vostra madre, è sempre stata decisa a non farla demolire ma non ha nemmeno pensato ad un modo efficace per riutilizzarla. Temo che dentro di sé sperasse sempre nel ritorno del marito, o nel vostro... e alla fine voi siete tornato davvero.”
    Evan evitò il suo sguardo. “Troppo tardi.”
    “Ciononostante!” Schultz batté il pugno sul bancone. “Avete la possibilità di cambiare tutto adesso. Potete riaprire questa libreria e riconsegnarla ai suoi antichi fasti!”
    “Potrei.” Evan annuì. Schultz lo guardò come un pesce in un acquario, in attesa, a occhi spalancati. “Ma non so nulla di come si gestisca un negozio. E soprattutto...” Sollevò una mano, la guardò. Aliseo ignorò ancora una volta la sua chiamata. “Sono il Comandante di Radiant Garden. Sono mancato dai miei doveri troppo a lungo. Devo tornare.”
    “Oh.” Schultz si afflosciò come un palloncino sgonfio, le braccia lasciate andare lungo i fianchi con un'espressione mogia. “Un altro giovane costretto a prendere le armi. Guerre su guerre.”
    Evan gli sorrise. Schultz era un brav'uomo, la cui intelligenza non lo rendeva però così sveglio. Avevano entrambi la soluzione davanti agli occhi, ma non la stava cogliendo. Dal canto suo, Evan non sapeva come avrebbe reagito suo padre ad una simile trovata; ma voleva pensare che sarebbe stato contento. In qualche modo, il suo sogno andava avanti. Anche se non tramite il suo stesso figlio... almeno, non ancora.
    “Signor Schultz.” lo richiamò; si era perso in qualche monologo borbottante sull'importanza di capire che le guerre fossero inutili e rimase sorpreso nel sentirsi chiamare. “Credo che lo spirito di mio padre mi prenderebbe a schiaffi se mi sentisse dirvi una cosa del genere; ma come ho detto, non posso essere io ad occuparmi del suo lascito. Ho una guerra da combattere, amici e compagni che contano su di me. Un giorno forse potrei tornare a Port Royal e occuparmi di tutto di persona, ma quel giorno è ancora così lontano che non riesco nemmeno a scorgerne l'alba. Per questo...” trasse un profondo respiro, carezzando il bancone con un sorriso amorevole. Rattrappita, rovinata dall'umidità e dalla muffa... rimaneva comunque la sua libreria. Il suo piccolo tempio, dove si faceva leggere tanti libri da suo padre e ne leggeva altrettanti da quando aveva imparato a farlo. “Signor Schultz, desidero che siate voi a prendervene cura.”
    L'uomo lo guardò di sasso. Non riusciva a capire come avesse reagito ad una tale richiesta; sembrava allarmato, preoccupato ed estasiato insieme. Pose le mani di fronte a sé come un roditore spaventato. Aprì e chiuse la bocca diverse volte prima di riuscire a parlare; dietro di lui, Nines lo fissava con curiosità.
    Herr Gallaway...” mormorò Schultz. “La vostra proposta mi onora inimmaginabilmente.” Evan lo guardò con tanto d'occhi. Era... commosso? “Io e Albert – che Dio l'abbia in gloria! - ci siamo sempre divertiti a bisticciare e ritenerci l'uno l'acerrimo nemico dell'altro, ma eravamo mossi dallo stesso ideale. Volevamo portare più cultura a Port Royal, non solo inglese, ma anche da altri regni d'Europa e non solo! Il sapere contenuto nel mondo è così tanto che non lo si potrebbe contenere tutto nemmeno mettendosi a studiare per anni!” Tirò su col naso; la sua commozione era così sincera e intensa che persino lui sentiva un certo pizzicore agli occhi. “Non avrei mai osato chiedervelo. Ma se la vostra offerta è vera, Herr Gallaway... vi prometto, anzi, vi giuro che manderò avanti la missione di vostro padre. Gallaway Books tornerà bella come prima in men che non si dica!”
    “Temo di non potervi aiutare economicamente.” Ammise Evan, con un sospiro. “Ho già speso molto per riprendere le proprietà della mia famiglia.”
    “Oh, non dovrete sborsare un'ulteriore moneta!” assicurò Schultz, muovendo frettolosamente le mani di fronte a sé. “Ho amici in Europa e nelle Colonie che sarebbero felici di aiutarmi in questa impresa, e anche qualcuno qui a Port Royal stessa sarebbe più che propenso a darmi una mano, io credo. Nonostante l'oscurità che quell'infame ignorante di Beckett ha portato, ci sono ancora persone affamate di cultura, di arte. È una promessa: questa libreria non morirà.”
    Evan annuì, non riuscendo a trattenere una risatina sollevata. “Vi credo, Schultz. E so che mio padre avrebbe voluto lo stesso. Per questo vi ringrazio.” Fece un piccolo inchino. “Dal profondo del cuore.”



    Dopo il discorso avvenuto con Schultz, Evan aveva preferito uscire. Gli aveva lasciato la chiave e aveva chiesto che la porta nascosta non venisse toccata almeno per il momento; non sapeva ancora cosa fare con quei libri, anche se non credeva che suo padre li avrebbe tenuti nascosti. Per lui i libri andavano letti e riletti anche a costo di ridurli ad un decimo di ciò che erano in partenza.
    “Sei stato zitto tutto il tempo.” Nines era rimasto accanto a lui.
    “Non pensavo fosse il caso di intervenire.” disse Nines. “Sono contento che la mia negligenza non abbia avuto gravi conseguenze, comunque. Schultz sembrava davvero contento di poter gestire la tua libreria.” Si voltò verso il negozio, un po' troppo rispetto ad un normale essere umano.
    “Se continui a girarti, la testa si svita come una lampadina?” chiese, alzando le sopracciglia.
    Nines capì e si affrettò a guardare avanti di nuovo. “N-no. Mi dimentico che un umano non può ruotare la testa così tanto. Errore mio.” Si grattò una guancia.
    Evan fece uno sbuffo divertito. “Sì, comunque. Non ricordo molto bene quell'uomo, ma so che era amico di mio padre. La libreria non potrebbe essere in mani migliori, almeno so che lui se ne occuperebbe.”
    Si massaggiò la spalla. Il dolore alla schiena stava tornando.
    “Andrai a Radiant Garden quindi...” Nines per un attimo gli parve mettere il broncio.
    “Devo.” rispose Evan. “Sono mancato troppo a lungo, non sono per niente giustificabile.” Trattenne un gemito. Un'altra fitta si fece avanti. “Mio figlio ha bisogno di me. E non so come chiedere scusa alla mia fidanzata...”
    Si bloccò in mezzo alla strada, stringendo le dita sulla spalla. Gemette a denti stretti.
    “Evan?” Nines si voltò subito verso di lui. “I tuoi valori sono irregolari. Dove ti fa male?”
    “La...” biascicò, faticando a muovere un altro passo. “Questa cazzo di schiena...!”
    Stava per cadere, ma Nines lo sostenne subito. “Devo portarti a casa? C'è un medico decente qui?”
    “A casa...” riuscì a dire. Le fitte aumentavano a dismisura, di nuovo sentiva come se qualcosa stesse cercando di perforargli la schiena con artigli affilati. Un liquido della consistenza del catrame, come sangue dai riflessi d'ossidiana, scivolava viscoso e gocciolava in terra. Nines gli lanciava sguardi preoccupati e andava il più velocemente possibile, un passo dopo l'altro senza sentire più di tanto il suo peso. Il fatto che il suo corpo fosse artificiale andava a loro vantaggio, perlomeno.
    “Non ho mai visto niente del genere...” Commentò, scuotendo la testa. “Non è Piaga Oscura. Non... non capisco...”
    Evan gridò, le gambe gli cedettero. Il dolore si era fatto insopportabile. Gli artigli sembravano sul punto di squarciargli la pelle sul serio, questa volta. Nines non lo resse abbastanza bene e sentì le ginocchia toccare pesantemente il terreno accidentato con una scarica di dolore; piantò una mano in terra per non cadere di faccia e tossì, tossì cercando di liberare i polmoni da qualcosa che si rifiutava di uscire. Tossì, finché il terreno non si macchiò di rosso.
    Per la prima volta dopo anni che quella cosa lo tormentava, Evan sentì davvero paura. Aveva vissuto a Port Royal, dove la medicina era appena sufficiente; e sapeva che tossire sangue non era mai niente di buono. Tremò, la vista gli divenne annebbiata e punteggiata, i contorni si fecero confusi. Non riusciva a smettere di tossire. Stava morendo? Stava morendo sul serio? O era solo un episodio più forte e violento del solito? Anche qualche sera prima si era trovato nella stessa situazione, confuso e spaventato a pregare per la propria vita, ma adesso stava tossendo sangue. Qualsiasi cosa si stesse agitando dentro di lui causandogli quei dolori terrificanti lo stava danneggiando più del solito. La sua presa sul mondo si fece sempre più debole. Sentiva la voce di Nines fioca e lontana.

    ”Evan...”

    “No. No, ti prego. Lasciami in pace.”

    “Non andartene.”

    “Perché? Perché non posso andarmene? Perché non posso finalmente morire?!”

    “Tu non vuoi morire.”

    “Non è più questione di cosa voglio io...”

    “Sì, invece.”

    Guardò di fronte a sé. La strada era vuota, sterrata, costeggiata d'erba alta e alberi. La luce, nel cielo, rischiarava quella sconfinata distesa. “Perché?”

    Sora gli mise le mani sul viso. I suoi occhi erano completamente bianchi, era ancora vestito come un pirata. Gli sorrise. Una sola espressione capace di calmare ogni tempesta.

    “Perché tu non vuoi abbandonarli.”
     
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    Il Guardiano della Luce.


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    Quando riaprì gli occhi faceva freddo. Mugolò e grugnì cercando di mettere a fuoco dove si trovava. Sentiva la schiena tirargli come se decine di uncini fossero conficcati nelle sue carni, persino alzarsi a sedere stava risultando faticoso. Specie perché, si rese conto, era steso a pancia in giù. Il mondo pian piano assunse una forma regolare, riuscì a distinguere il mobilio della sua stanza e un vociare da un'altra parte della casa. Qualcuno stava gridando, con una voce sorprendentemente furiosa.
    Fece perno sulle mani per voltarsi, ogni muscolo della schiena supplicava di non muoversi, ma non poteva rimanere lì fermo mentre c'era un litigio a nemmeno troppa distanza da lui. Qualcosa scivolò dalla sua schiena: un telo annerito, macchiato di quel liquame che ricordava gli fosse uscito dalle cicatrici diverse volte. Si accorse di essere a torso nudo, i pantaloni con la cintola macchiata di nero e la sensazione di non aver dormito per niente.
    Era tardo pomeriggio; il cielo era ingrigito, nuvole grevi di pioggia avanzavano veloci verso Port Royal. Un freddo glaciale e fuori stagione alitava per le strade e gli spifferi raggiunsero le cicatrici scoperte, facendolo rabbrividire con un gemito dolente. Cercò i vestiti, almeno la camicia, ma non sembrava esserci nulla di simile nei dintorni. Le lenzuola erano macchiate di nero e rossastro. Stavolta, le cicatrici avevano fatto un autentico macello, come se volessero ripagarlo di tutti i mesi di calma che gli avevano concesso.
    Poggiò i piedi in terra e si affrettò a infilare gli stivali. Il suo udito era ancora ovattato, ma la discussione si stava scaldando ulteriormente e non aveva intenzione di starsene con le mani in mano ancora a lungo; la voce più alta e rabbiosa era quella di Nines, l'altra non la riconosceva bene. Sembrava piuttosto infervorata a propria volta. Poi, con sua sorpresa, sentì anche una voce femminile: Mary. Che diavolo stava succedendo in casa sua?!
    Scattò in piedi, con un violento giramento di testa che lo obbligò a poggiarsi allo scrittoio. Si portò una mano alla fronte, sentendola madida di sudore. Aveva sempre più freddo, ma per una volta non c'entrava lui: c'era davvero un gelo invernale che non faceva che aumentare, con spifferi taglienti come lame che filtravano dalle finestre. La porta era chiusa.
    La porta si aprì e Nines fece capolino, preoccupato. “Immaginavo ti fossi svegliato. Mi dispiace per questo baccano.” Disse con evidente irritazione nella voce, voltandosi di nuovo verso il salotto. “Ma sarebbe stato molto meglio che non ti alzassi, Evan. Sei stato parecchio male.”
    Evan non stentava a crederlo. Strinse un occhio, per il dolore e per la confusione. Con chi stava urlando Mary? “Che ore sono?” Domandò. “E che sta succedendo?”
    “Prima metti questa.” Disse porgendogli una camicia. Era lavata e asciugata di fresco. “Le ferite hanno finalmente smesso di sanguinare due ore fa. Non sapevo più cosa fare.” Nel porgergli la camicia, se fosse possibile una cosa del genere, gli parve di vedere le sue mani scosse da un tremito. Persino la sua voce era piena di preoccupazione. Eppure, un androide come lui non poteva arrivare a tanto, no? Questo era sempre stato il fulcro di tutti i suoi discorsi. Si chiese se si stesse accorgendo che pian piano ogni conversazione fatta finora stesse smentendo tutto quanto. “Hai passato una notte terribile, Evan. Sudavi, deliravi, avevi la febbre altissima. Ho potuto solo continuare ad asciugare tutto quel... liquido che ti usciva dalla schiena. Sono le cinque del pomeriggio adesso. Minuto più, minuto meno.”
    “Le cinque...” ripeté Evan. Mise la camicia, sussultando appena al contatto del tessuto con le cicatrici. Facevano ancora male, ma perlomeno poteva muoversi. “Aspetta. Ho di nuovo dormito un giorno intero?!” Si mosse verso di lui, ma represse un ringhio di dolore. “Cazzo!” imprecò.
    Nines annuì. “Ho cercato di svegliarti. A un certo punto ti sei addormentato così profondamente che ho dovuto subito attivare la diagnostica. Temevo che avessi avuto un infarto fulminante.” Si strinse nelle braccia. “Le mie conoscenze mediche hanno aiutato poco, qualsiasi condizione tu abbia non figura nei miei archivi. Ho solo potuto arginare.”
    “Hai fatto molto, tranquillo.” Aveva un aspetto sfatto e sfinito di sicuro, ma voleva almeno rassicurarlo. “Questa cosa... mi perseguita da anni. Pensavo se ne fosse andata, ma ora è tornata più forte che mai. Me l'avevano detto...” fece un sorriso amaro. “Mi resta molto poco da vivere.”
    Nines lo guardò strabuzzando gli occhi. “Cosa...?” Scosse la testa. “No. No! I tuoi valori sono tutti nella norma ora! Non-”
    Lo interruppe, mettendogli una mano sulla spalla. “Nines.” Sorrise. “Grazie. Dico davvero. Ma sapevo da tempo che mi sarebbe finita così. Non preoccuparti, sul serio. Ci sono sceso a patti tempo fa.”
    Quando non aveva nulla da perdere, però. Quando la sua vita era solitaria, ripetitiva, divisa solo tra scaramucce contro gli Heartless e il ritorno ad una casa vuota. Ora aveva Nate ed Eileen. Aveva quel minuscolo frammento di Sora, custodito gelosamente nel suo cuore. Aveva tanti amici a cui aveva imparato a voler bene, di cui era riuscito pian piano a fidarsi. E lì a Port Royal aveva scoperto di avere ancora tante persone che tenevano a lui, che erano state felici del suo ritorno tra i vivi. Adesso che aveva tutto questo, adesso che solo nell'ultimo anno, nonostante una guerra in corso, aveva davvero iniziato a vivere, distaccarsi da tutto questo gli sembrava ingiusto e crudele. Se si fosse trovato nella stessa situazione qualche tempo prima, quando ancora tutto ciò che faceva era girare per i mondi a bordo di una vecchia Gummiship scassata per trovare altri sopravvissuti di Radiant Garden, non si sarebbe opposto.
    Ma adesso...
    “Oh! Evan!” la voce di Mary lo richiamò alla realtà. La sua espressione era preoccupata; ma il suo viso era ancora paonazzo di rabbia. Doveva essere uscita dalla taverna in fretta e furia, aveva ancora il grembiule sporco e i capelli legati e tirati all'indietro. Accanto a lei, rimasto a debita distanza e con un'espressione visibilmente irritata, c'era l'ultima persona che si sarebbe aspettato di incontrare proprio lì. Fermo sulla sua porta di casa c'era nientemeno che James Norrington.
    “Mary.” La salutò, confuso. “Norrington?”
    “Lascia perdere questo idiota.” Mary recuperò in fretta il proprio fervore. “Guardate com'è ridotto, Ammiraglio! Cosa siete venuto a fare qui? Preoccupatevi di difendere questa città! È il vostro lavoro, mi pare!” Mise le mani ai fianchi. Non si sarebbe mai aspettato di sentire Mary così arrabbiata, men che meno con un alto ufficiale della Compagnia.
    “Signora Gardner.” Evan si rese conto solo ora che da sposata non aveva cambiato cognome. Norrington si strinse la sella del naso con le dita. “Sono disposto a perdonare tutto il vostro turpiloquio, ma non sarei qui se non avessi bisogno di conferire con Gallaway direttamente. Credetemi, sono il primo che farebbe a meno di dovergli ancora rivolgere la parola.”
    “Ora sono curioso.” Evan gli rivolse un sorrisetto stanco. La schiena gli faceva male e il suo corpo si stava riprendendo molto lentamente da tutto quel torpore.
    “Dovresti tornare a letto, Evan.” protestò Mary; fu da lui in pochi passi e gli mise le mani sul viso. “Santo cielo, sei pallido come uno straccio. Che ti è successo?” Rivolse un'occhiataccia a Nines. “Spero che non sia perché questo qui ha cucinato male qualcosa, o lo metto nello stufato di stasera.” Fu parecchio interessante vedere un androide di ultima generazione sbiancare con preoccupazione evidente.
    “Nines non c'entra.” Assicurò lui, allontanando gentilmente le mani di Mary. “Ho solo avuto un malore, Mary. Mi riprenderò.” Mentì. Non era necessario che tutti sapessero e Nines perlomeno si premurò di non spiattellare nulla.
    “Siediti un momento comunque!” Insistette lei. “Ti preparo qualcosa.”
    “Ho solo bisogno di un attimo.” Norrington era ancora lì e c'era un drappello di soldati della Compagnia al suo seguito; quasi tutti erano gli stessi ragazzi che aveva visto nella grotta. “Gallaway, mi dispiaccio delle vostre condizioni di salute, ma ho davvero necessità che mi spieghiate che sta succedendo. E siete l'unico nel raggio di leghe che possa farlo.” Concluse, lanciandogli uno sguardo che non ammetteva repliche.
    Evan sospirò pesantemente e si diresse verso la porta.“Fatemi vedere.” Si sistemò la giacca e seguì Norrington. Mary e Nines lo tallonavano. “Qualcuno sa di cosa sta parlando?” Chiese ai due.
    “No.” disse Nines. “Non sono uscito fino ad ora.”
    “Io...” Mary si strinse nelle braccia. Indossava un pesante scialle. “Meglio che lo vedi tu, Evan.”
    Uscirono, accolti da un vento gelido che li sferzò con prepotenza. Un clima che Port Royal non aveva mai visto nemmeno negli inverni più rigidi; piccole stalattiti di ghiaccio pendevano dai tetti delle case, a parte i soldati che correvano trafelati per le vie della città in giro non c'era nessuno. I comignoli di tutte le abitazioni fumavano, grandi scie nere si innalzavano prima di venir spazzate via dal vento. Per un attimo gli sembrò di essere finito in un altro mondo. Si strinse nella giacca, che faceva ben poco.
    “Forse...” Norrington diresse il suo sguardo verso il porto, verso quello che doveva essere l'orizzonte coperto da nubi nere. “Potrete spiegarmi cos'è quello.”
    Evan strabuzzò gli occhi e d'un tratto si sentì più sveglio che mai. Mise a fuoco ciò che copriva l'orizzonte e si avvicinava sempre di più a Port Royal; vorticava, lampi dorati e bianchi come spade si affollavano al suo interno, un uragano che avanzava, lento e sibilante, il cui lontano e roboante muggito si scontrava con le loro orecchie. Intorno ad esso il cielo era grigio, le nubi erano accartocciate e spezzate, trascinate nel suo moto selvaggio; il mare schiumava, le onde sciabordavano schiantandosi sulle scogliere e sui moli.
    Presto Evan capì che non erano nubi. E non era nemmeno una tempesta.
    Era un Heartless.

    “Allora?!” Norrington lo richiamò, la voce carica d'urgenza. “Volete fissarlo inebetito ancora a lungo? Che cos'è?!”
    Evan deglutì a vuoto, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quella cosa. “Un Heartless.” rispose. “Forse... un agglomerato. Avete un cannocchiale?”
    “Ci penso io.” disse Nines. “Sì, distinguo diversi Heartless minori nel vortice. Sto cercando di contarli...”
    “Saranno almeno tremila.” disse Evan scuotendo la testa. “Forse di più. Non sappiamo quanti siano sott'acqua, ad esempio.”
    “Ho superato quel numero da un po'...” disse Nines, preoccupato.
    “Com'è possibile che sia sbucato dall'oggi al domani?” domandò Evan. “Se il cambiamento di temperatura è opera sua, si sta avvicinando a Port Royal da almeno una settimana.” Trattenne un gemito di dolore. Si voltò verso Norrington. “Dov'erano i vostri uomini? Perché nessuno ha detto nulla?”
    L'Ammiraglio sospirò. “Noi non voliamo come voi, Gallaway.” Ribatté. “Ho ricevuto un dispaccio solo ieri sera, ha continuato ad avanzare senza sosta per parecchi giorni.” Il suo sguardo si fissò su quel gigantesco ammasso di mostri turbinante, con odio. “Ha affondato tre delle mie navi e una quarta non può navigare. Degli uomini che erano venuti ad avvisarmi ne sono rimasti due.”
    “Si è formato in mezzo all'oceano.” Disse Evan, strizzando un occhio. Pensare gli faceva venire un gran mal di testa.
    “Corretto.” Norrington annuì. “All'inizio sembrava un mulinello marino e nient'altro, poi si è ingigantito. L'hanno chiamato Maelstrom. Il nome è rimasto anche dopo che è affiorato dall'acqua e ha iniziato a muoversi. Quanto alla vostra prima domanda...” Sospirò. “Lo abbiamo scambiato per una tempesta inizialmente, poi ieri sera è arrivato il dispaccio. La flotta è per mare, il vento generato da quella cosa è troppo forte e le mie navi di guardia non sono riuscite ad inseguirla.”
    “Siamo soli.” realizzò Evan. “Con nient'altro che la Endeavour e Fort Charles.”
    “Potremmo confidare nell'arrivo della flotta di guardia,” disse Norrington con voce molto poco convinta, “ma per il momento possiamo contare solo sulle nostre forze.” Strinse l'impugnatura della sua sontuosa sciabola, ingobbito da un pesante sospiro e un'espressione rassegnata a corrugargli la fronte. Sentì lo sguardo dell'Ammiraglio su di sé e lo trovo colmo di delusione. “Speravo veramente che poteste darmi delle notizie migliori.”
    Evan scosse la testa. “Spiacente.”
    “Siete comunque l'autorità sul campo al momento,” disse Norrington. “Voi avete affrontato molti più Heartless di chiunque su quest'isola o forse nell'intero mondo, quindi il vostro sapere sarebbe più che gradito in ogni caso.” Riconobbe lo sguardo che gli lanciò: era lo stesso che, tanti mesi prima, gli era stato già rivolto da Cid. Lo sguardo che lo investiva di altre responsabilità, di compiti immensi e pesanti che avrebbe dovuto svolgere. Uno sguardo che una volta avrebbe detestato, che aveva spesso e volentieri risentito a quell'uomo; adesso c'era qualcosa di diverso. Di fronte ad una simile avversità e al pericolo che si profilava per tutta Port Royal, poteva obiettare? Poteva permettersi di negare aiuto a chi glielo stava chiedendo? Voleva tirarsi indietro?
    Tu non vuoi abbandonarli.
    Dunque, non aveva altra scelta. “Datemi il comando.”
    Norrington lo guardò a occhi spalancati come se l'avesse schiaffeggiato. Mary si irrigidì, Nines lo guardò preoccupato; si reggeva in piedi a malapena, era intirizzito per il freddo improvviso e ancora dolorante per la notte orrenda che aveva passato, ma il suo sguardo era fermo su quello dell'Ammiraglio.
    Non avrebbe rischiato una seconda Radiant Garden, dove una gestione confusa aveva messo in forse i loro progressi contro Fastus troppo a lungo. Voleva proteggere Port Royal, dal primo all'ultimo abitante, non importava che persone fossero, se fossero pazzi e violenti ubriaconi o santi scesi in terra; non lo sentiva come un dovere, ma come un'impellente e disperata necessità.
    “Non credo di aver capito,” mentì Norrington.
    “Avete capito benissimo.” Evan si erse nella propria altezza, impettendosi per quanto possibile. “Non intendo temporeggiare, Norrington. Se volete che vi aiuti a proteggere questa città, dovrete darmi il comando della difesa.”
    “Siete un pirata!” Era sconvolto. “E un disertore!”
    “Ma sono anche il Comandante di Radiant Garden.” Gli rivolse un sorriso di sfida. “Alto ufficiale dell'Esercito di Sora. Non vi chiederei tanto se non volessi che le cose andassero per il meglio, Norrington... e questa è la via più rapida.”
    “Devo chiedere il permesso di Lord Beckett...” Norrington si portò una mano alla fronte. “Non avete idea di cosa mi state chiedendo. Non acconsentirà mai! E i miei uomini...”
    Evan lo afferrò per il bavero. “Cos'avete più a cuore?” disse con voce sferzante; i soldati di Norrington misero le mani alle armi, almeno quelli che non conosceva. “L'ego di Beckett? O la salvezza di questa città? Fate una scelta chiara per una volta, Norrington, ma non rubatemi altro tempo.”
    Poteva quasi vedere i pensieri dell'Ammiraglio dietro il suo sguardo combattuto. Si mordeva l'interno della guancia, la mascella rigida, le mani che fremevano. Stava soppesando tutte le possibilità e sapeva che il tempo a loro disposizione era molto poco; il Maelstrom sembrava aver rallentato un po', ma rimaneva una minaccia presente e imminente.
    “Groves. Gillette.” Chiamò i suoi due ufficiali. Evan spostò lo sguardo su di loro rapidamente e notò che entrambi erano disarmati. C'era esitazione nei loro occhi, anche più che nel loro superiore. Erano uomini fedeli, Norrington era fortunato. “Affido la difesa di Port Royal al Comandante Gallaway. Risponderete ai suoi ordini, ubbidirete senza fare storie e gli procurerete tutto ciò di cui ha bisogno. Se credete che i suoi ordini siano sbagliati o che stia passando il limite fatemi rapporto.” Era un buon compromesso, Evan non aveva nulla di cui lamentarsi; stavano collaborando per il momento, non erano diventati grandi amici né incredibili compagni di battaglia, e nel momento esatto in cui quella battaglia fosse terminata, sempre che in primo luogo fossero riusciti a vincerla, sarebbero andati per la loro strada.
    “Signore!” I due si misero sull'attenti.
    Evan si rilassò un secondo. Barcollò sul posto, con la testa pesante; si sorprese nel vedere Norrington protendersi per sostenerlo. “Avete davvero una brutta cera, Gallaway.” commentò con espressione corrucciata. “Quasi mi dispiace di avervi tirato giù dal letto.”
    “Non pensateci.” Evan dissimulò la propria preoccupazione. Non era mai stato così male anche dopo un attacco. Forse era davvero la fine. “Ecco i miei primi ordini, piuttosto.” Norrington lo lasciò andare, ma Nines gli rimase vicino nel caso in cui avesse di nuovo avuto bisogno di un sostegno. Si rivolse ai soldati. “Voi, rompete le righe e andate di casa in casa. Mary, aiutali anche tu. Sei un volto familiare e conosci molte persone, ti aiuteranno. Dite che Port Royal è sotto attacco e di ritirarsi nell'entroterra. Date la priorità ad anziani, bambini e malati.”
    “Un momento!” disse Norrington. “Stiamo già parlando di evacuare la città?”
    “È la cosa migliore.” Disse Evan. “Quell'essere non è un Heartless solo, è un agglomerato. Ci sono pochissimi casi documentati, ma di solito dopo un po' si sfaldano e i singoli Heartless cominciano ad attaccare a propria volta chiunque gli capiti a tiro. Non conosco il comportamento di questo Maelstrom, quindi preferisco mettere al sicuro la popolazione.”
    Norrington sospirò. “Va bene. Forza, fate come dice!” I soldati si sparpagliarono in gran fretta andando di casa in casa come richiesto, e anche Mary fece del proprio; uscì poco dopo dalla taverna con un manipolo di marinai che si erano fermati lì a bere e li stava istruendo sul trasportare un'anziana che abitava lì vicino. Sapeva di poter contare su di lei.
    “Nines.” Il ragazzo si mise sull'attenti. “Tranquillo.” Gli diede una pacca sulla spalla. Lo sentì rilassarsi un poco, ma era sempre piuttosto teso. Gli porse una scheda. “Nella mia Gummiship è conservato un paranco elettromagnetico. Voglio tutti i cannoni di Fort Charles puntati su quella cosa.”
    Nines annuì velocemente. “E quello aiuterà a spostarli più in fretta! Dov'è la Gummiship?” Aprì un varco oscuro davanti a sé, non senza spaventare chiunque gli fosse attorno.
    “Vicino al promontorio, a ovest della città.” Spiegò Evan. Il ragazzo si precipitò nel varco, che si chiuse alle sue spalle subito dopo. Gli rimaneva solo una persona. “Norrington.” Lui non si mise sull'attenti, ma era in allerta. “Vi voglio al timone dell'Endeavour. Deve essere armata e in mare entro un'ora.”
    L'Ammiraglio annuì. “In questo vi ho preceduto. Dovrebbe essere quasi pronta ormai.”

    Norrington si sarebbe dunque recato alla nave per iniziare ulteriori cannoneggiamenti finché il Maelstrom si trovava ancora a ragionevole distanza dal porto; le vedette non riuscivano ad individuare le navi di guardia, ma qualche lampo giallastro in mezzo alla nebbia faceva ben sperare. Il turbine, però, non rallentava più di tanto anche con tutte quelle navi a tartassarlo di cannonate quasi ininterrottamente.
    Evan si era diretto al forte per controllare la situazione. Se le cose si fossero messe male non sarebbe stato più sufficiente il combattimento navale, ma si sarebbero dovuti preparare a difendere la spiaggia e il molo; fortunatamente, Beckett non era ancora partito e ora era asserragliato nella sua villa con alcuni uomini di rinforzo e aveva lasciato rifornimenti e provviste ancora sani e salvi e Port Royal, pronti per essere usati da loro. Il problema era come gestire tutto.
    Richard, nonostante fosse più alto di lui, gli stava dietro a fatica e quasi doveva trotterellare limitandosi ad annuire ad ogni cosa che diceva; Evan lo udiva a malapena, impegnato com'era a pensare, così immerso nelle proprie congetture ed elucubrazioni strategiche da non rendersi nemmeno conto della velocità a cui camminava, macinando metri su metri del pavimento di pietra a passi tonanti, lo sguardo assorto su tutta una lunga sfilza di calcoli e liste mentali.
    Fort Charles disponeva di una guarnigione di duecento tra reclute e soldati inesperti, con pochi ufficiali al comando e solo una piccola, forte minoranza di veterani, meno di una trentina. Gli uomini sull'Endeavour erano poco più di un centinaio. Avevano abbondanza di armi e munizioni per resistere ad un assedio di settimane, ma nel momento in cui la battaglia si fosse spostata sulla spiaggia, rischiavano di non reggere l'impatto. Si spostò nell'ufficio di Norrington, una mappa della città davanti e possibili luoghi dove organizzare una resistenza o innalzare barricate che venivano segnati di continuo dal carboncino; Richard era sempre accanto a lui, suo malgrado del tutto ignorato per il momento, ma manteneva un teso silenzio. Doveva essere spaventatissimo.
    “Non sei obbligato a stare con me.” Disse Evan, sollevando lo sguardo dalla mappa. “Sto meglio ora.”
    “Non avete chiesto nessun ufficiale di supporto.” disse Richard. “Volevo... darvi una mano.”
    “Ti ringrazio.” Evan gli sorrise con sincerità. “In tal caso, dammi il tuo parere sulla strategia.”
    Il fulcro della sua strategia era usare il combattimento navale per temporeggiare. L'Endeavor e i cannoni di Fort Charles avrebbero dovuto sparare a pieno regime contro il Maelstrom, quasi senza sosta, mentre a terra si innalzavano barricate e ci si preparava per una difesa a oltranza. Richard aveva ingenuamente chiesto se fosse possibile sconfiggere quella cosa in mare – ma Evan era stato fin da subito pessimista sulla cosa. “Se nemmeno la flotta di guardia è riuscita a fermarlo, possiamo solo guadagnare tempo.” Aveva detto, per poi tornare a studiare la mappa. Avrebbero potuto formare una sorta di barriera con le navi ormeggiate, gli Heartless non avevano abbastanza acume tattico da oltrepassare simili ostacoli di solito e preferivano attaccare direttamente, lanciandosi come una marea in un'unica direzione libera. Questo avrebbe permesso ai soldati di occupare uno spazio relativamente minore, magari con l'aggiunta di qualche cannone e delle palizzate. Il paranco elettromagnetico avrebbe reso molto più semplice lo spostamento dei pezzi.
    Non riusciva ad essere ottimista. La strategia non era fatta per durare. Avrebbero potuto reggere un giorno o forse due, sempre se gli Heartless avessero concesso loro dei momenti di riposo. Non sapeva nulla del Maelstrom e questo era il problema maggiore, non sapeva se si sarebbe sfaldato una volta toccata terra o se avesse avanzato nella propria inesorabile scia di distruzione fino a radere al suolo l'intera città. Sarebbe stato difficile proteggere i cittadini a quel punto, ma almeno l'evacuazione stava procedendo bene; seppur con qualche reticenza e qualche litigio qua e là, tutti i cittadini si stavano dirigendo lontano da Port Royal, prendendo la via principale per uscire dalla città e andare nell'entroterra. Non lo facevano a cuor leggero ed era sicuro che Mary o la signora Carter non fossero affatto felici di lasciare le proprie abitazioni.
    “Comandante, siate sincero.” Richard interruppe il suo flusso di pensieri. Stava lucidando il fucile per passare il tempo. “Non ne usciremo vivi, vero?”
    Evan gli rivolse un sorriso malinconico, più una smorfia quasi. “Mentirei se ti dicessi che potremmo vincere.” La presa di Richard si fece più forte sul fucile. “Nessuno sarà obbligato a restare, Richard. Se pensi di non riuscire a combattere, fai dietrofront adesso e unisciti all'evacuazione. Un soldato alleato è comunque una presenza rassicurante per dei cittadini in fuga, e se le cose si mettessero male, il tuo fucile potrebbe essere più utile lì che sulla spiaggia.” Il ragazzo abbassò lo sguardo. Teneva le labbra strette, si era fatto piccolo piccolo nelle spalle. Evan riprese a lavorare sulla sua strategia, ma non mancò di lanciargli un'occhiata di quando in quando anche solo per capire come si stesse sentendo. Tutto questo era... familiare. Richard era solo un po' più grande di Darian e Tobio. “Hai mai combattuto?”
    “No.” Ammise Richard. “Io... mi sono arruolato solo qualche mese fa. Poi è arrivato Beckett, speravo che essere un soldato proteggesse mia madre... ma sapete com'è andata a finire.” Posò il fucile sulle gambe, chinando il capo. “Volevo diventare ufficiale. Non perché volessi combattere... volevo ripagare mia madre di tutti i sacrifici che ha fatto crescendomi da sola. Volevo ammutinarmi e scappare, è stato Samuel a impedirmelo. Adesso...” Deglutì a vuoto. “Adesso ho solo paura.”
    “Del Maelstrom?”
    “Del Maelstrom... di Beckett...” fece spallucce. “Io sono solo un soldato, Comandante, e nemmeno uno particolarmente abile. Tutti i mali di questo mondo mi ucciderebbero in un attimo. Quelli come me...” Tremò. “Sono solo sacrificabili.”
    “E tu cosa pensi?” Evan lo fissò dritto negli occhi. La serietà della sua domanda sembrò inchiodare lo sguardo di Richard al suo, che si limitò a fissarlo interdetto per diversi istanti.
    “Io...?”
    “Sì, Richard Smith. La domanda l'ho fatta a te.” Il suo tono si fece più affabile, ma la sua espressione rimaneva di una serietà granitica. Aveva già sentito troppe volte quelle parole, anche dalla sua stessa bocca, per poterle sopportare ancora. “Pensi di essere sacrificabile? Pensi che la tua vita non valga nulla, di essere solo l'ennesimo fucile della linea di fuoco?”
    “No!” La risposta di Richard arrivò rapida, come uno sparo. “Non lo penso! Non voglio neppure pensarlo!” Il fucile cadde a terra con tonfi e tintinnii. “Io voglio vivere, Comandante! Non riesco a pensare di essere solo un membro di un plotone! E ora che mia madre non c'è più...” ricadde seduto. “Non voglio nemmeno continuare ad essere un soldato. Lo facevo per lei. E ora lei è morta.”
    Evan alzò le sopracciglia, incuriosito. “Cosa vorresti fare allora?”
    Richard arrossì. “Promettetemi di non prendermi in giro.”
    “Se richiede una simile promessa, mi assicurerò di non farlo.” assicurò Evan, annuendo.
    Il ragazzo divenne del colore di un papavero. “Il f... fioraio.” Evan sbuffò, una risatina che ovviamente irritò subito il ragazzo, che distolse lo sguardo con aria ferita. “Avevate promesso...!”
    “Non rido di questo, infatti.” Rispose Evan, sorridendogli. “Rido perché sono felice di sentirlo. Persino nell'inferno creato da Beckett c'è ancora gente capace di sognare. E sai...” Si alzò dalla scrivania. “Se più persone preferissero dedicarsi alle cose che crescono, piuttosto che alla guerra e al denaro, il mondo sarebbe un posto migliore.” Scacciò una scarica di dolore, dirigendosi verso la porta. “Andiamo, Richard. Se vuoi combattere al mio fianco per questa volta, mi assicurerò che tu possa esaudire il tuo desiderio. E quando avrai piantato i tuoi fiori, magari...” Li porteranno sulla mia tomba, se ne avrò una? “Un giorno te ne chiederò qualcuno per mia moglie.”
    Richard gli rivolse un ampio sorriso. “Lo spero!” Esclamò. “E se vinceremo vi farò uno sconto!” Ridacchiò, in un modo che spinse anche Evan a riderci su; era un piccolo, inaspettato momento di leggerezza che precedeva ad una notte oscura, segnata da sangue e combattimenti terribili. Ed Evan era conscio che quel sorriso potesse spegnersi da un momento all'altro, sarebbe bastato un Heartless furioso, un'artigliata, una disattenzione, e di quel ragazzo sarebbe rimasto solo un corpo senza vita, un sogno spezzato.
    Sapeva di non poterlo evitare, perché la guerra era così, lo sapeva da sempre; ma non significava che fosse accettabile. Avrebbe difeso lui e quei ragazzi, e qualunque soldato avesse potuto, con tutte le proprie forze. A differenza sua, loro avevano ancora una vita davanti; ma anche se avesse avuto a disposizione altri mille anni di vita, Evan non si sarebbe comunque risparmiato. Mentre camminavano per il corridoio e Richard faceva già grandi piani per il negozio che voleva aprire, mostrando anche una vasta conoscenza botanica nell'elencare parecchi fiori che nemmeno sapeva esistessero, la figura di una donna si stagliò nel corridoio come una spada puntata dritta contro di lui; alta e magra, col viso scavato e i capelli acconciati impeccabilmente, avvolta in una veste nera e verde, c'era Laura Seele.
    “Signora Seele.” La salutò. Era... strano.
    Non sentiva niente.
    “Evan.” Disse lei, in tono asciutto. “Ho saputo che hai preso il comando della difesa.”
    Sicuramente era un passo avanti da altri epiteti e dalla fredda cortesia; ora sembrava direttamente parlargli con confidenza per il gusto di sminuirlo. Sentì Richard irrigidirsi, accanto a lui. “Va' a vedere se Nines ha finito i preparativi sui bastioni.” Gli disse. “Arrivo tra poco.” Il ragazzo ubbidì, defilandosi da quella situazione in fretta e furia. Laura Seele sembrava sul punto di accoltellarli entrambi. “Avete saputo bene, signora Seele.” Rispose Evan, sostenendo il suo sguardo. L'ultima volta che l'aveva vista gli era sembrato che torreggiasse su di lui come uno scoglio nella notte. “Dovreste unirvi all'evacuazione finché siete in tempo. La città potrebbe diventare un campo di battaglia.”
    “Lord Beckett lo ha permesso?” Rispose lei.
    “Non mi serve il permesso di Beckett per difendere la mia città, signora Seele.” Replicò lui. “Vi invito ad affrettar-”
    “La tua città?” Seele sbottò una risata amara. “Santo cielo, Evan. In due settimane sei diventato più arrogante di prima. La tua città non era questo gran problema, quando hai deciso di abbandonare tutto rimettendoci amici e famiglia!” Evan strinse i pugni... ma era più un riflesso. “Scommetto che ci sei tu dietro la fuga dei detenuti, non è così? Perché la gente di Port Royal dovrebbe fidarsi di te?”
    “La scelta è loro.” Disse Evan. “Non hanno nulla da perdere.”
    Seele sbuffò. “A fidarsi di te si ha solo da perdere.” Gli lanciò uno sguardo glaciale, di quelli che lo avrebbero fatto tremare sul posto. “Immagino che certa gente debba solo scoprirlo da sé.”
    Il cuore che pompava furiosamente. Frustrazione e dolore che urticavano le sue vene come acido. Il respiro che gli mancava, per il senso di colpa galoppante che gli impediva persino di ragionare. Quelle erano le cose che aveva provato l'ultima volta che aveva parlato con lei; eppure, questa volta, Evan sentì solo le mani rilassarsi. Il suo cuore era calmo. Come uno scoglio nella notte.
    “Laura.” La chiamò per nome, senza paura. Lei reagì come se l'avesse colpita; indietreggiò di un passo, gli occhi spalancati, l'espressione contorta nel disprezzo. Forse nemmeno il marito l'aveva mai chiamata per nome. “Nate potrebbe essere ancora vivo.”
    Le sue mani ebbero uno spasmo, come se volesse lanciarglisi addosso per strangolarlo. Lui si limitò a sorriderle, incontrando solo un algido e furente disgusto sul suo viso. Impazzava e ruggiva come il mare in tempesta, come se il Maelstrom in quel momento fosse dentro di lei e cercasse in tutti i modi di scardinare ogni parte di lui; eppure rimanevano a distanza, fronteggiandosi in un silenzioso scontro di sguardi che stavolta lei non stava vincendo.
    “Non t'importa.” Realizzò.
    “Io non ho figli.” Disse lei in una sferzata velenosa. “Non ne ho mai avuti.”
    “Nate la pensava diversamente.” Rispose Evan. Era calmo, ma qualcosa nelle sue parole la fece indietreggiare di un altro passo. “E cercava sua madre. Nell'incubo peggiore della sua vita, non eri lì a confortarlo. E nemmeno di fronte a ciò che nessun genitore dovrebbe mai subire. Lo hai lasciato solo.”
    “Cosa credi di saperne...!” La voce di Seele sembrava quasi un ringhio.
    “Lui ti voleva bene. Nonostante tutto.” Disse Evan. “Ti ha cercata fino all'ultimo. E forse ti sta ancora cercando.”
    Lei si guardò intorno come se Nathaniel fosse lì, a due passi da loro, in ascolto. “Cosa stai dicendo?”
    “Ci sono cose incomprensibili nel nostro universo, Laura.” Spiegò Evan, in tono gentile. “A volte la disperazione e l'attaccamento alla vita sono più forti della morte. Tu non c'eri, quindi non puoi sapere che alla loro esecuzione qualcosa andò storto. Ci fu un'esplosione, rimase solo il corpo di Paul. La bara di Nate fu riempita di pietre per salvare le apparenze.” Lei tacque, guardandolo attonita. “Nate è in giro per questo universo... e sta soffrendo. Hai l'opportunità di non abbandonarlo una seconda volta.”
    Lei, per la prima volta, distolse lo sguardo. Rabbia e vergogna, forse addirittura una punta di materno dolore, si affacciarono sul suo viso di solito marmoreo e inflessibile. Si reggeva alla gonna, stritolandola come se potesse darle tutte le risposte che si era rifiutata di sentire fino ad ora. Lui si limitò a guardarla, attendendo che finisse qualunque ragionamento stesse facendo, ignorando il dolore alla schiena che strisciava tra i suoi muscoli ancora adesso, ignorando anche il sapore ferroso che sentiva in fondo alla gola. Era ormai fuor di dubbio. La sua ora stava arrivando sul serio. Ogni minuto di quella giornata era stato come un lento addio a tutto, silenzioso e segreto. L'ultimo sguardo a Mary, a Norrington. E ora a Laura Seele, con quell'esortazione ad essere per una volta la madre di cui Nathaniel aveva sempre avuto bisogno.
    “Devo andare, signora Seele.” Disse, con un sospiro. “Unitevi all'evacuazione.”
    Avrebbe voluto dire addio ad Eileen, a Nate. Stringerli forte un'ultima volta. Se solo avesse saputo... ma si era cullato nell'illusione. Aveva creduto che quelle cicatrici fossero diventate inoffensive. E si era separato da loro nel peggiore dei modi.
    “Evan.” Disse lei. La sua voce recuperò il contegno di prima, lei si fece di nuovo seria, autoritaria, impettita. Eppure, più che una spada sembrava una guglia di cristallo. “Credi davvero che sia ancora vivo?”
    “Lo spero.” Ammise lui. “Tutto mi dice che lo è.”
    Seele chinò il capo, ed Evan temeva già che la risposta non gli sarebbe piaciuta. Tutto il discorso fatto fino ad ora non sarebbe servito a nulla? In cuor suo lo temeva, ma sperava che da qualche parte nel freddo cuore di quella donna ci fosse ancora una scintilla d'amore materno. Sempre che l'avesse mai avuto, che lo avesse solo espresso nel modo peggiore. Una parte di sé, memore di una famiglia grandemente diversa, voleva sperare che ogni madre amasse il proprio figlio... anche se aveva visto molti esempi del contrario.
    “Semmai dovessi trovarlo prima tu...” disse lentamente, ogni parola soppesata e centellinata. Non capiva se si stesse controllando, o se semplicemente non volesse dire molto altro. Lo guardò negli occhi, un'espressione che diceva più di mille parole. “Non mandarlo da me.”
    Lui le lanciò uno sguardo deluso. “Perché?”
    “Perché è meglio così. Per tutti.”
    Laura Seele non aggiunse altro. Si avviò giù per la scalinata, l'espressione assorta e incomprensibile, lasciandolo da solo e con un mucchio di domande mentre si dirigeva verso i bastioni.

    La situazione sulle mura sembrava ancora più tragica che da terra. Persino su quell'alta scogliera scoscesa, che un paio di giorni prima era stata teatro di una fuga rocambolesca, la percezione di quel gigantesco mostro non diminuiva; la sua altezza complessiva sembrava paragonabile a quella dell'Arma evocata da Fastus a Shibuya, questo senza considerare quanti altri Heartless stessero vorticando sott'acqua, famelici e furiosi come un branco di squali. Si resse alle mura, guardando verso il molo dove l'Endeavour si stava preparando alla partenza; Norrington era stato di parola e la nave era davvero pronta al combattimento in minor tempo di quanto avesse richiesto. Tuttavia, a vedere quella cosa che avanzava, sentiva le speranze venirgli meno di minuto in minuto. Tutto ciò a cui potevano affidarsi era il cannoneggiamento; potevano solo confidare nel fatto che quello sciame gigantesco si sfaldasse, così da poterli fronteggiare in combattimenti più piccoli. Se ne avessero uccisi abbastanza, come era già successo a Radiant Garden o in altre situazioni, era anche possibile che gli altri si spaventassero e decidessero di ritirarsi senza infliggere ulteriori danni. Il problema era che aveva a disposizione sì e no trecento soldati, dei quali ben pochi erano davvero pronti allo scontro e altri erano alle prime armi; quelli come Richard, che non avevano mai affrontato una battaglia, erano la maggioranza. La Compagnia aveva distribuito disordinatamente le proprie forze per contenere i Caraibi, e gli uomini capaci erano tutti al largo.
    “Evan.” Nines gli si avvicinò mentre i soldati finivano di montare i cannoni supplementari, ricavando lo spazio per farli tirare anche a costo di abbattere pezzi di muro a picconate. Stavano lavorando da ore ormai; l'espressione del ragazzo era parecchio cupa. “Ho finito il conto. Sono più di diecimila solo in superficie.” Si strinse nelle braccia. Richard, accanto a loro, divenne pallido come un cencio. “Non credo tu voglia sapere il numero esatto.”
    “Non serve.” Tornò a guardare il Maelstrom. “Come sono messi i cannoni?”
    “Sono quasi tutti operativi, stiamo finendo di trasportare le munizioni.” Rispose Nines. “Ma, Evan... non credo nemmeno che possiate affrontare questo Heartless.” Parlava a pugni stretti, con l'aria di chi stava dicendo cose sgradevoli e ne era ben conscio. “Siete pochi e male armati. Ci vorrebbe un bombardamento orbitale per distruggere quella cosa, o uno stormo di caccia, o-.”
    “Ma non abbiamo navi spaziali a portata di mano, mi sembra.” Disse Evan. “O caccia. Abbiamo solo queste persone e svariate migliaia di cittadini da difendere.” Si voltò per andare a parlare con il quartiermastro, ma sentì la presa ferrea di Nines sul braccio.
    “Mettiti in salvo, Evan!” Disse in un soffio; il suo tono era una supplica. Per quanto potesse essere possibile, i suoi occhi erano lucidi. “Se rimarrai qui morirai! Tu...” Per un momento distolse lo sguardo. Stava tremando, forse persino più spaventato di Richard, le sue parole risaltavano a fatica nel fischiare e rombare del Maelstrom. “Tu sei importante, Evan. Sei un Keyblader! Non dovresti gettare via la tua vita in questo modo, hai un esercito da guidare!”
    “Lo sto facendo.” Evan si trasse dalla sua presa con fermezza. “Sto guidando questo esercito.”
    “Non possono farcela!” Insistette Nines, a voce così alta che lo sentirono tutti, le sue parole vibrarono nel suo cuore come se qualcuno ne stesse suonando maldestramente le corde. Sentì qualcosa tirarlo per lo stomaco, come un riflesso rabbioso. “Ho analizzato ogni possibilità, ogni strategia! Finirà in un massacro!”
    “Allora morirò accanto a loro!” Ribatté Evan. Nines sussultò. “Pensi che non lo sappiano? Credi che per questi uomini sia facile rimanere qui a guardare la morte avvicinarsi?! Ma sanno anche che se non lo faranno loro nessuno difenderà le loro famiglie!” Distolse lo sguardo, il respiro affannoso come un toro dopo una carica. “Ci fosse anche una probabilità su un milione, dovessi combattere da solo, difenderò questa città. E facendo così manchi di rispetto al coraggio di queste persone.”
    Poteva vedere la vergogna dipinta sul suo viso. Sapeva che non aveva detto quelle cose per nuocere, che era una brava persona che stava cercando di salvare un amico; per questo, mentre lo superava, gli mise una mano sulla spalla e gli concesse un tenue sorriso. “Apprezzo che ti preoccupi per me, Nines. Hai fatto molto per me in questi giorni, e te ne sono grato. Ma questa non è una battaglia da cui possa tirarmi indietro.”
    Nines coprì la sua mano con la propria, stringendola. “Allora ti difenderò.” Disse, con decisione.
    Evan alzò le sopracciglia. “E Fastus?”
    “Non c'è lui dietro questo attacco.” Negò Nines. “Lo avrei saputo e ci sarebbe uno dei suoi generali.”
    “Pensi che Ailani potrebbe fermare quest'affare?” Chiese, guardando il Maelstrom.
    “Potrebbe... ma dubito che lo farebbe.” ammise Nines. “Per come la vedrebbe lui, sono solo Heartless che cercano di nutrirsi. Port Royal non è un obiettivo importante.”
    “Quindi la tua è un'iniziativa indipendente.” Evan sbuffò. “Sei furbo.”
    “Tecnicamente possiamo difenderci se veniamo attaccati dagli Heartless, Ailani non può controllarli sempre.” Disse Nines, con un sorrisetto complice. “Io sono a Port Royal e sto venendo attaccato.” Si voltò verso gli altri soldati, che avevano ripreso a lavorare con meno foga di prima. Era vero, la paura era evidente nei loro occhi come se fosse marchiata a fuoco. “Mi dispiace per le mie parole. Non... non dovrei comportarmi così.”
    “Avere paura è umano.” Evan lo superò. “Ma lo è anche trovare il modo di non farsene dominare.”
    “Voi non avete paura, Comandante?” Domandò Richard. In quella conversazione non doveva averci capito granché, finora. “Sembrate così calmo.”
    Evan rise leggermente. “Ho paura di così tante cose insieme che credo siano giunte ad una tregua.” Rispose, guardando il ragazzo in tralice. E non era solo quello. Era quella sensazione ottundente che da quando si era svegliato lo stava accompagnando, lo avvolgeva come una spessa campana di vetro che attutiva emozioni e sensazioni. La paura, il dubbio, erano come un grattare lontano. La sua mente era lucida, concentrata su un presente che poteva interrompersi da un momento all'altro. Sospirò, portandosi le mani ai fianchi e scuotendo la testa. “So che se mi fermerò un momento tutte quelle cose mi raggiungeranno e colpiranno con più forza di prima... quindi adesso portatemi il Quartiermastro- ah, Groves!” Individuò il tenente di Norrington, avvicinandosi a lui. “Proprio al momento giusto. Dovete andare al molo a far spostare tutte le navi in modo da ostruirlo. Come stanno andando le barricate?”
    “Le stiamo tirando su, ho lasciato a Gillette il resto.” Disse Groves. La sua divisa era sgualcita e macchiata di terriccio, i guanti erano posati in tasca. “L'Ammiraglio Norrington mi ha chiesto di informarvi che l'Endeavour è salpata e sta iniziando il cannoneggiamento.”
    Annuì, combattendo un altro giramento di testa. “Molto bene.” Deglutì a vuoto. Sentiva lo sguardo di Nines perforarlo, ma non lo ricambiò. “Groves, vi lascio il comando dei bastioni. Non appena arriva a tiro, sparate senza riserve.”
    La risposta di Groves fu inghiottita da un violento, assordante ruggito che investì Port Royal come la folata di un uragano. Il vento fischiò e ululò, gelo improvviso li raggiunse; molti soldati si rannicchiarono spaventati. Fulmini verdastri si diramarono tra le nubi e crepitarono in mezzo alle spire vorticanti del Maelstrom, numerosi lampi e scoppi arancio e oro lo avvisarono che Norrington aveva dato via libera ai cannoni, salve precise e inframmezzate in modo da garantire un fuoco continuo; la nave era lenta e pesante, pensata più per essere imponente e spaventosa per qualsiasi pirata volesse attaccarla che per un vero e proprio combattimento. Forse quei cannoni non avevano mai neppure fatto fuoco prima di quel giorno, ma sembrava che i soldati della Compagnia sapessero il fatto loro: si tenevano a debita distanza dal mulinello generato dal Maelstrom e continuavano a cannoneggiare al massimo della portata, aprendo grossi squarci sulle pareti del vortice che venivano sostituiti subito dopo. I soldati sul forte si preparavano a propria volta a far fuoco, aumentando il più possibile l'alzo dei cannoni per guadagnare gittata.
    “Comandante, signore!” Samuel risalì in fretta la scalinata. Sapere che tutti i suoi alleati cospiratori fossero ancora vivi gli aveva dato parecchio sollievo. “Il Quartiermastro è bloccato di sotto. Ci sono diverse persone che chiedono di essere armate.”
    “Persone?” Ripeté Evan, confuso.
    Un rombo cavernoso li obbligò a voltarsi di nuovo verso il Maelstrom; il turbine si spaccò leggermente, nella gioia generale dei soldati sui bastioni che credevano che l'Endeavour avesse ferito la bestia; ma quella che si staccò dal vorticare incessante fu una spira roteante, il braccio di un titano fatto di nubi e fulmini. La spira partì a gran velocità contro la nave e si schiantò sulla prua con abbastanza forza da far ondeggiare e traballare il possente vascello; Evan si aggrappò al parapetto, allarmato.
    “Heartless!” Disse Nines. “Vogliono abbordarli! C'è già un combattimento sul ponte!” Alcuni uomini misero mano ai cannocchiali per confermare le sue parole. Un brusio spaventato si diffuse presto tra di loro.
    “Nines, apri un portale verso l'Endeavour!” Ordinò subito Evan. “Samuel, aiuta il Quartiermastro con le barricate. Se quelle persone vogliono aiutare tanto meglio, non possiamo fare gli schizzinosi. Richard e voi tre, seguitemi!” Il varco si aprì di fronte a lui. “Formate una linea di fuoco non appena saremo arrivati a destinazione!” Concesse loro un sorriso incoraggiante. “Tranquilli. È innocuo.”
    E senza dire altro Evan balzò nel varco oscuro.

    Lui e Nines furono i primi a giungere a destinazione e trovarono il combattimento già in corso; alcuni soldati della Compagnia stavano difendendo la prua dell'Endeavour a fil di spada, ma era evidente la loro inesperienza nel combattere gli Heartless. Spruzzi d'acqua e spuma annebbiavano l'aria di gocce saline, massicce ondate si frangevano sulla chiglia della nave. Nel momento esatto in cui Evan uscì dal portale vide un Lanciere travolgere uno dei soldati, e si diede una forte spinta per raggiungerlo con la spada già sguainata. L'Heartless nemmeno si accorse della lama che gli trapassò la testa parte a parte, si limitò a paralizzarsi sul posto mentre Evan estraeva l'arma e lo finiva con un fendente che gli troncò di netto la testa dal collo. Un altro fu spazzato via da un colpo di una piccola pistola nella mano di Nines, nera e con piccoli led blu lampeggianti sulla canna. Il ragazzo sospirò di sollievo e sparò subito un altro colpo incenerendone un altro.
    “Indietreggiate!” ordinò ai soldati ancora in combattimento. C'erano almeno una ventina di Heartless su quel punto. “Liberate la linea di tiro!”
    In quel momento, Richard e gli altri soldati finirono di mettersi in posizione; gli altri soldati, Evan e Nines si spostarono, permettendo ai cinque di far fuoco e sfoltire parte delle linee degli Heartless, assieme a chiunque avesse una pistola carica, compresi loro.
    “Ora!” Evan sollevò la spada. “Respingiamoli!”
    Con un unico grido i soldati impugnarono sciabole e baionette e caricarono gli Heartless rimasti, che sorpresi dal contrattacco vennero travolti; quelli che non morirono all'istante furono ricacciati in mare, venendo investiti dalla chiglia della nave.
    “FUOCO! NON DISTRAETEVI!” Norrington era sul ponte di comando, retto al parapetto, la sciabola puntata verso il Maelstrom. C'erano stati altri combattimenti là sopra, a giudicare dagli ultimi stralci di polvere oscura che si innalzavano intorno agli ufficiali, ma dovevano averli superati senza problemi. Era sempre così con gli Heartless: puntavano sulla quantità, e il rapporto di forze era del tutto impari.
    L'acqua vorticosa rendeva le manovre della Endeavour imprevedibili. Il timoniere faceva una gran fatica a mantenere la rotta, cavalcando il mulinello del Maelstrom per dare velocità alla nave; le vele ancora reggevano, ma il vento di quando in quando le tendeva all'inverosimile. Il mare gonfio e schiumante continuava a infrangersi sulla chiglia, grandi ondate sembravano sul punto di inghiottire la robusta nave e farla sparire per sempre negli abissi; avrebbe dovuto sentire una gran paura, erano nel bel mezzo di una battaglia contro quella bestia terrificante, eppure... una parte di lui non riusciva a non provare una rinvigorente eccitazione. Un'altra onda si infranse sulla prua e investì il ponte, quasi spazzando via lui e Nines; nel riprendere fiato, con un respiro pesante e reso affannoso dalla trepidazione, Evan guardava verso il mare in tempesta e riusciva solo a sorridere. Era come aveva detto a Kurama giorni prima, come aveva sperimentato in piccolo durante il viaggio in Gummiship verso Tortuga, la sensazione di quel legame con il mare che non riusciva mai ad abbandonare era sempre fortissima, inebriante; persino in quel momento, in mezzo al tuonare dei cannoni e al rombo della tempesta, nel vorticare sempre più forsennato e feroce del Maelstrom, riusciva a pensare solo ad una cosa. Essere sul ponte di una nave, in un mare in tempesta minaccioso e implacabile come se l'antica Leviathan o la dea Calypso volessero distruggerli, lottare contro di esso con la coscienza di essere piccoli e insignificanti di fronte a quella scura immensità...
    Era davvero la sensazione migliore del mondo.
    Rise. Rise della tempesta, delle onde che cercavano di frantumare la nave. Rise, in aperta sfida all'oceano, una nuova lotta all'ultimo sangue che il mare avrebbe sempre e comunque vinto, ma che i marinai potevano affrontare con un sorriso e ogni oncia del loro essere devota solo alla sopravvivenza. Ed Evan, nel reggere un'altra onda, rise di nuovo. Un calore travolgente aveva afferrato il suo corpo come una febbre.
    Voleva vivere. Voleva vivere.
    Il discorso avuto con Laura Seele, la rassegnazione silenziosa che aveva caratterizzato tutta la sua giornata. La sensazione di star dicendo addio ad ogni cosa, come se ogni persona, ogni viso, ogni luogo, li stesse vedendo per l'ultima volta. Tutto veniva spazzato via da ogni ondata. Era lui, solo lui contro il mare, come un tempo, con nient'altro che la primordiale, disperata necessità di sopravvivere anche a quell'avversità. Nel lottare contro la furia del mare, spogliato dei suoi gradi e delle sue paure, rimaneva solo questo.
    La folle libertà di voler continuare a vivere.
    “Evan...?” Nines lo guardava con tanto d'occhi. “Sembri... felice?”
    Si voltò verso di lui reggendosi alla prua. “Lo sono!” Esclamò, quasi gridando. “Come potrei non esserlo?” L'Endeavour fu travolta da un'onda che la prese a babordo, scuotendola e minacciando addirittura di farla rollare; investiti da una nuova massa d'acqua, Nines perse la presa ed Evan lo afferrò con una facilità sorprendente, trascinandolo fino a farlo aggrappare di nuovo al parapetto con un'espressione sorpresa. “Oggi potrebbe essere il mio ultimo giorno di vita, eppure non mi sono mai sentito così vivo!” Rise di nuovo. “Ho paura! Il cuore mi sta impazzendo in petto! Voglio proteggere questa città, questa nave! Voglio combattere! Voglio rivedere Eileen! Nate! Voglio rivederli tutti!” Gocce più calde si fondevano all'acqua di mare e alla pioggia, scivolandogli invisibili lungo il viso. La sua voce tuonava sopra il rombo dei cannoni. “Voglio vivere, Nines! Non posso che essere felice di questo!”
    “Allora sopravviviamo a questa battaglia!” Esclamò Nines. “Non arrenderti ancora!”
    “Non potrei neppure volendo!” Evan fece un ghigno euforico, sopportando un'altra ondata. “Ho troppo per cui voler vivere! Ma se questo deve essere il mio ultimo giorno, non me ne andrò senza combattere!”
    “CI RIPROVA!” Gridò Norrington. “ALLE ARMI, UOMINI!”
    Una nuova spira turbinante si staccò dal Maelstrom e piombò a gran velocità sulla nave, stavolta riuscendo a colpirne esattamente il centro; per poco l'albero maestro non si staccò, traballando e tremando vistosamente, Evan vide che una delle vele era parzialmente lacerata, ma per il momento poteva solo dedicarsi alla minaccia più impellente. Sparò qualche colpo contro alcuni Heartless minori, che vennero accolti a suon di sciabolate dai soldati di Norrington.
    Evan e Nines si gettarono nella mischia; entrambi si premurarono di liberare soprattutto i pezzi, così che i soldati potessero continuare a sparare contro il Maelstrom. Lanciandosi in scivolata, Evan tranciò di netto un Heartless Pirata che cercava di colpire Richard alle spalle; il ragazzo ricambiò conficcando la baionetta nel cranio di uno Shadow che voleva colpirlo alle spalle a propria volta. Impugnò di nuovo il fucile e colpì un altro Heartless, un Soldato, alla testa con il calcio; Evan lo finì, calciandolo lontano.
    “Bene così!” si complimentò Evan. “Resta coi tuoi compagni, Richard!”
    “Sissignore!” rispose il ragazzo, rientrando nei ranghi. Lui e gli altri soldati formarono un vero e proprio muro di baionette, continuando a menare affondi per spingere gli Heartless lontano dai pezzi.
    Chiunque non fosse occupato coi cannoni continuava a combattere; due soldati trafissero un Cavaliere Corazzato, che rotolò giù morente dalla scalinata che portava al ponte inferiore; una linea di fuoco improvvisata sparpagliò un manipolo di Shadow. Un soldato fu scaraventato contro l'albero maestro, perdendo i sensi; un Blu Ciccio sbuffò, le mani che sprigionavano fiamme. Altri due soldati giacevano feriti, o forse morti, ai suoi piedi. “Vogliono distruggere l'albero.” Realizzò Evan. “Vogliono azzopparci! Formate un perimetro!” E mentre gli altri soldati si concentravano sul respingere gli Heartless dall'albero maestro, il Blu Ciccio attaccava lui di persona; un gancio destro infuocato gli passò sopra la testa, seguito da un sinistro, un montante, l'Heartless lo incalzava con una gragnuola di colpi che Evan schivò uno dopo l'altro fino a dare la schiena al resto della formazione. Ghignò. “Bravo, imbecille.” Sbuffò compiaciuto, mentre Nines gli sparava un colpo alla schiena che lo fece caracollare in avanti; Evan scivolò sotto un altro colpo e si diede la spinta sui piedi per saltargli sulla schiena, trafiggendolo di netto; un vortice di lame d'aria partì dalla sua spada, dilaniando il Blu Ciccio e facendolo cadere in terra morto. Un Cavaliere Corazzato corse a gran velocità verso di lui, prendendolo alla sprovvista; parò un colpo e ne deviò un altro, ma il ponte bagnato gli fece perdere l'equilibrio.
    “Evan!” Gridò Nines, lanciandogli qualcosa di rotondo; Evan lo afferrò d'istinto e parò un altro fendente.
    Il coperchio di un barile. “Questa poi...” ridacchiò, respingendo la spada del Cavaliere e trafiggendolo. Soppesò il coperchio, infilando meglio l'avambraccio. “Grazie.” Commentò, rivolto a Nines.
    “Era strano vederti senza scudo.” Rispose lui, con un sorrisetto complice. “La mia arma è sovraccarica. Devo passare al combattimento in mischia.” Disse, tendendo la mano di lato; una lunga spada dritta comparve subito dopo, galleggiando a pochi centimetri dal suo palmo. Aveva una forma semplice, ma la guardia era leggermente più articolata, gli ricordava il calcio di un fucile.
    Un colpo di pistola fu seguito da un altro Heartless morto, che cadde giù dalla nave. Richard rinfoderò l'arma, brandendo solo la sciabola. “Ne stanno arrivando ancora?” Disse il ragazzo, guardandosi intorno. “L'AMMIRAGLIO!”
    Evan si voltò e vide Norrington in difficoltà; il ponte di comando era stato preso d'assalto da altri Heartless, su cui spiccava uno particolarmente alto, corazzato e con due strane spade al posto delle mani; Norrington si gettò a terra per evitare un suo fendente e deviò un affondo della sua arma con una sciabolata, ma fu calciato contro il muro della cabina. Il timoniere e due ufficiali erano morti; Evan notò che uno di loro aveva un profondo buco in petto, simile a quello lasciato da un'arma di grosso calibro.
    “Nines, difendi l'albero.” Disse. “Ne stanno arrivando altri. Penso io a Norrington!”
    Con un sibilo, Evan sparì e fu alle spalle dell'Heartless; quello fu però più veloce e si voltò per colpirlo, trovando la sua guardia. L'urto fu abbastanza forte da spingere Evan a terra. Accusò il colpo alla schiena con un gemito, ma trasse le forze che poteva per respingerlo con uno scoppio di lame di vento; l'Heartless balzò all'indietro, dandogli il tempo di alzarsi.
    Esitò.
    “Nate...?” azzardò; con sua sorpresa, l'Heartless fece cenno di no con il capo. “Già, troppo facile.”
    Quello gli puntò contro la lama e si rese conto che aveva sulla sommità una canna di pistola; evitò lo sparo per un pelo, sentendo il proiettile sfiorargli l'orecchio. Un Dual... Gunblade? Era possibile? Non ne aveva mai visto uno.
    “Ma da dove cazzo sei uscito tu adesso?!” Imprecò, lanciandoglisi contro; evitò un doppio fendente, mirò alle sue gambe, ma l'Heartless deflesse il colpo con facilità e lo respinse, riprendendo a incalzarlo.
    Evan riuscì solo a spostarsi sulla difensiva; ma ad un tratto l'Heartless si mise di sbieco e proiettò il braccio sinistro all'indietro, scontrandosi con un'altra lama.
    Norrington.
    “Non è un nemico per le vostre capacità, Norrington!” Disse Evan.
    “Nemmeno per le vostre.” Rispose l'Ammiraglio. “Non fate lo smargiasso.”
    Evan sbuffò, facendo spallucce. L'Heartless fece uno sbuffo a propria volta, come se li stesse deridendo; ed entrambi lo attaccarono, trovandolo capace di difendersi egregiamente dai loro colpi; se avesse avuto ancora il Keyblade le cose sarebbero state molto diverse, ma non aveva neppure provato ad invocarlo fin dall'inizio della battaglia; sentiva che sarebbe stato totalmente inutile e non avevano tempo da perdere. Poterono solo incalzarlo, ma quell'Heartless sembrava uno spadaccino provetto; al primo fendente troppo largo di Norrington lo deviò e calciò via l'Ammiraglio con facilità, per poi voltarsi contro Evan con una piroetta e sparargli una salva di proiettili fiammeggianti dai Gunblade. Pregando che almeno questo funzionasse, Evan piantò i piedi bene in terra e si riparò dietro lo scudo, una barriera biancastra apparve subito dopo a muraglia, assorbendo gran parte dei colpi finché non si frantumò; si gettò a terra, allibito.
    “Mi prendi per il culo...” Annaspò, rotolando per evitare un altro sparo. Lo calciò alla gamba, facendolo finalmente barcollare e sparandogli tutto il caricatore rimasto alla testa; intontito, l'Heartless si riparò dietro il Gunblade mentre Evan si rimetteva in piedi ed evitava un affondo, che si conficcò nel muro. Si mise proprio in mezzo alle braccia dell'Heartless e, afferrandogli un avambraccio con la mano che reggeva lo scudo, tranciò di netto il polso dell'arma bloccata, facendolo barcollare indietro in preda al dolore.
    L'Heartless però era tutto fuorché sconfitto. Tirò una ginocchiata allo sterno ad Evan, mozzandogli il respiro, e lo schiantò contro il muro con il braccio monco. La spada gli cadde di mano. Guardò l'arma dell'Heartless che si abbatteva su di lui, pensando solo a come trarsi d'impaccio da quella situazione, d'istinto alzò lo scudo; ma un raggio azzurro la raggiunse prima, spezzandola e sbilanciando il mostro in avanti. Evan balzò reggendosi al muro e spintonò via l'avversario con entrambe le gambe, facendolo barcollare; si lanciò sulla spada mentre quello lo caricava, e approfittando del suo slancio, lo accolse con un violento affondo che lo colpì in pieno all'addome con un sibilo e un forte rumore stridente. La lama fendette le carni dell'Heartless fino all'elsa, mentre con un altro sussulto e il rumore di metallo spaccato, la punta della sciabola di Norrington sbucava dal suo petto. L'Heartless emise un verso sorpreso, uno sbuffo che produsse una forte condensa, mentre le sue braccia si afflosciavano prive di forza, pendendo dalle spalle come inutili orpelli, le gambe che barcollavano.
    Evan e Norrington estrassero le armi dal torace del loro avversario, che cadde a terra a sprofondando in un turbinio di polvere oscura. Non sapeva neppure se fosse ancora vivo.
    “Queste cose...” annaspò Norrington, riprendendo fiato. “Sono la norma?”
    “Già.” Rispose Evan, col fiatone a propria volta. “Immaginate tutta Port Royal così.” Fece un cenno a Nines, che dopo essersi assicurato che stesse bene tornò a combattere per difendere l'albero maestro; tuttavia, non tardò a notare che l'Endeavour non stava più seguendo alcuna direzione. “IL TIMONE!” Esclamò, seguito a ruota da Norrington; ma il timoniere era morto, dilaniato dall'attacco dell'Heartless di prima. Il timone si muoveva da solo, ed Evan lo acchiappò a fatica, cercando di rigirarlo con uno sforzo sovrumano.
    “Ce la fate?!” Chiamò Norrington.
    “A... malapena!” farfugliò Evan a denti stretti. “La corrente è troppo forte!”
    “Non stavate studiando da timoniere?!”
    Evan lo fulminò con lo sguardo. “Sette anni fa.” Gemette, cercando di riprendere il controllo della nave. “Questo mostro ha il culo pesante, accidenti...!” Guardò verso il Maelstrom. “Fate preparare i pezzi di tribordo! Proverò a cavalcare la corrente, il vento ha cambiato direzione!”
    “Quel maledetto Heartless!” imprecò Norrington. “Fate quello che dovete, ma tenete a galla questa nave!”
    “Fosse facile...!” borbottò Evan a denti stretti. Aveva preso il timone pochissime volte durante l'addestramento, e di navi immensamente più piccole dell'Endeavour, più agili e manovrabili. Quella nave era sempre più evidente quanto fosse inadatta al vero combattimento. Era come una colossale armatura da parata.
    “Signore! Una nave avvistata!” Gridò un soldato, scendendo dal sartiame.
    “Alleato? La flotta di guardia?!” Chiese Norrington. Il soldato scosse la testa.
    “Una nave pirata.” Rispose il soldato. Evan drizzò le orecchie. “Miss Fortune!”
    “Fortune?” dissero lui e Norrington in coro. L'Ammiraglio gli scoccò un'occhiataccia. “Era Fortune, l'altra notte?” Sbuffò, interpretando il suo silenzio come una tacita conferma. “Nessun altro pirata vivente sarebbe stato così folle, dovevo immaginarlo.”
    “E dire che sono pure venuta ad aiutarvi!”
    La voce di Sarah Fortune li fece trasalire tutti quanti; era comodamente poggiata al muro della cabina del capitano, le braccia incrociate e un sorriso sornione. Come tutti loro era fradicia, la treccia zuppa come cordame e il cappotto bianco che grondava acqua come un lenzuolo appena lavato.
    Norrington si prese la sella del naso tra indice e pollice. “Ci mancava solo lei.”
    “Cosa ci fate qui?” Chiese Evan. “Dove sono tutti gli evasi?”
    Sarah emise un sospiro infastidito. “Sulla mia nave! Eravamo ormai al largo di questa dannata isola, quando quella roba ci è venuta addosso. Devo ringraziare che la Bella Signora non è un pachiderma inutile come questo ciocco di legno o saremmo tutti morti.”
    “E la vostra nave è lì...” Evan vide che la Signora avanzava faticosamente verso il molo. Sentì un moto di impotenza e frustrazione nel vedere tutte le persone che aveva fatto salvare dalla forca tornare a due passi dalle stesse prigioni da cui erano fuggiti. Qualche lampo faceva capire che non stava dando quartiere nemmeno lei; ma era molto meno armata, fatta apposta per attacchi rapidi e veloci.
    “Se pensi che si faranno rimettere in gattabuia...” Sarah ridacchiò. “Tranquillo, Comandante. Non accadrà.” Mentre parlavano, la nave emise un crepitio cavernoso, come se si stesse spezzando sotto la semplice pressione dell'acqua. “Che diavolo fai lì impalato? Muoviti a virare o questa bagnarola si romperà in due!”
    “C... Ci sto prov-”
    Si sentì afferrato in malo modo da Sarah. “Levati di mezzo.” Intimò; lo allontanò dal timone come se non pesasse niente, facendolo caracollare all'indietro. “Una signora presuntuosa come questa richiede una mano decisa, Comandante. Non un cicisbeo che sa fare solo il baciamano.” Fece una pesante virata, l'Endeavour quasi piroettò su se stessa nel venire investita dalla corrente opposta; lui e Norrington poterono solo tenersi al primo appiglio disponibile, mentre Fortune iniziava già a latrare ordini ai marinai. Data la situazione nessuno se la sentì neppure di dirle di non farlo e si limitarono a ubbidire. Il sartiame fu presto percorso da parecchi soldati che eseguivano alla lettera tutto ciò che lei diceva loro di fare per dirigere al meglio la nave. “Se tratti la tua donna come guidi una nave, mandala da me. La poverina sarà maledettamente insoddisfatta.” E vedendolo diventare paonazzo (vergogna? Imbarazzo?) gli mandò un bacio, prima di tornare a dedicarsi alla nave.
    La manovra iniziata da Evan, ma portata a compimento con molto più successo da Sarah, riuscì a riequilibrare l'Endeavour: ora erano i cannoni di tribordo a cantare contro il Maelstrom, mentre la Bella Signora, coperta dal fuoco dell'enorme vascello inglese, riusciva ad approdare a Port Royal. Se Fortune era con loro, forse c'era Bela al timone – in tal caso era davvero brava; cavalcava il vento con agilità, quella piccola nave sembrava quasi volare sulle onde rispetto a quella dove si trovavano. Tuttavia l'apporto dell'Endeavour alla battaglia era innegabile. Erano ormai ore che sparavano contro quel vortice di Heartless, con sempre nuovi squarci e buchi aperti sulla sua turbinante superficie; sebbene sembrasse comunque inarrestabile e dovessero costantemente spostarsi per evitare di venir risucchiati, lo stavano rallentando; anche da Fort Charles arrivava un fuoco continuo, una pioggia di cannonate senza fine che sembrava star finalmente mettendo alla prova la resistenza di quel mostro.
    C'erano stati altri tentativi di abbordare la nave. Ogni volta gli Heartless si gettavano su un punto del ponte, o cercavano di risalire dal mare per entrare dai boccaporti, e ogni volta i soldati della Compagnia li ricacciavano in mare o li respingevano a morte. Nines aveva fatto arrivare dei rinforzi dalla terraferma, pirati e combattenti che cercavano di rimpinguare al meglio le loro forze; e per tutta la notte erano andati avanti così, in ore infinite che passavano rapide come dieci vite e lente come un'eternità.
    Erano tutti sfiniti. Anche con l'aiuto della ciurma di Fortune e dell'abilità al timone del loro Capitano, la guerra di attrito tra loro e gli Heartless non volgeva a loro favore. Ne avevano uccisi a decine, forse centinaia; ma per ogni ventina di mostri uccisi moriva uno di loro. Il ponte dell'Endeavour si era presto macchiato del rosso del sangue, di soldati, pirati e cittadini coraggiosi allo stesso modo. Il combattimento era durato ore e ore, dal tardo pomeriggio fino ormai alla notte più buia, poco prima del sorgere del sole; le nubi del Maelstrom rendevano impossibile distinguere l'orario, ma persino Evan e i soldati più resistenti e determinati stavano iniziando a sentire la stanchezza. Nines stesso aveva detto di starsi scaricando. C'era chi cercava di riposarsi, chi di mangiare qualcosa in un momento di pausa. Tuttavia, la realizzazione del tempo che avevano passato a combattere arrivò solo quando un paio di soldati emersero da sottocoperta pallidi e sconvolti, i loro sguardi fissi su Norrington in una muta supplica che l'Ammiraglio non riusciva a capire.
    “Che succede?” Domandò l'Ammiraglio. “Parlate!”
    “Ammiraglio, signore...” disse uno dei due, deglutendo a vuoto. “Non... non ci sono più munizioni.”
    L'intera nave si gelò. Un mormorio preoccupato si levò tra gli addetti ai pezzi; diversi cannoni erano stati distrutti, dalle esplosioni o dagli Heartless. Non c'era una singola palla disponibile in tutta la nave. A giudicare dai soldati che emergevano costernati dai ponti inferiori, quei due stavano dicendo la verità.
    “Le abbiamo sparate tutte?” L'incredulità di Norrington era ben visibile sul suo volto. “Da... da quanto tempo stiamo combattendo?”
    “Dodici ore.” Disse Nines. Stava mangiucchiando qualcosa.
    Dodici ore. Aveva intuito che fosse passato così tanto tempo; ma questo voleva dire che si stava davvero avvicinando l'alba, non che fosse comprensibile in quel momento. Quel che era peggio, ora l'Endeavour era solo un pezzo di legno del tutto indifeso.
    “Non ci resta che ripiegare.” Disse Norrington.
    “Per darcela a gambe, spero.” Intervenne Sarah. “Non avrete intenzione di combattere quel mostro a terra!”
    “Non abbiamo alternative.” Rispose Evan.
    “Oh sì che le abbiamo!” Ribatté Sarah. “Abbiamo fatto la nostra parte, no? Adesso possiamo levarci di torno a unirci al resto dei cittadini.” Guardò verso il molo di Port Royal, verso la città che ormai sembrava del tutto deserta. Tuttavia vedeva la barricata, i soldati messi a disposizione a difenderla. “Mi dispiace perdere la mia nave... ma non intendo farmi uccidere da quella cosa. Se sono davvero passate dodici ore, gli abitanti di Port Royal saranno lontani!”
    “I preparativi per l'evacuazione dono iniziati dodici ore fa.” Precisò Norrington. “Ci vuole tempo per cose del genere, hanno vecchi e bambini con loro. Il Maelstrom potrebbe raggiungerli in pochissimo tempo.” Chinò il capo. Non aveva mai visto, nemmeno qualche sera prima, Norrington con un'espressione così sconfitta; sembrava che la realizzazione di aver combattuto per così tanto, senza nemmeno poter dire di aver effettivamente cambiato la loro situazione, gli avesse dato il colpo di grazia. Si tolse il cappello a tricorno, era ancora uno dei pochi a tenerlo; molti soldati li avevano già persi o tolti da tempo. Teneva i capelli legati in una corta coda. “Se fuggiremo adesso, quell'affare ci sarà addosso in un attimo. E ci farà tutti a pezzi.”
    “Non possiamo fare davvero più niente?” Chiese Richard. Aveva i capelli corti e neri come la pece e nonostante diversi tagli sulla divisa era ancora in piedi. “Ammiraglio? Comandante? Capitano?” Li richiamò uno ad uno, non trovando nessuna risposta. “Magari fuggire con uno di quei portali oscuri...”
    “Sono innocui solo su brevi distanze e non per tutti.” Disse Evan. “Ora siete stanchi e feriti. L'Oscurità che c'è in quei corridoi è come un miasma velenoso per la maggior parte delle persone. Per questo non abbiamo potuto evacuare così i cittadini.”
    “E gli uomini della mia ciurma ne hanno risentito.” disse Sarah. Rafen, un uomo alto e muscoloso dalla pelle scura, annuì tristemente. Uno dei suoi era morto proprio perché scosso dalla tosse dopo essere uscito da un varco e un Heartless lo aveva attaccato. “Così come i vostri. Non si gioca con quei varchi, ragazzino.”
    “E se fuggiamo con quelli...” Realizzò Richard. “Non ci sarà più niente a fermare quella cosa.”
    “Hai capito.” disse Norrington. “Be', non abbiamo molta scelta.” Si alzò stancamente, reggendosi alla balaustra in legno. “Torniamo a Port Royal e facciamo barricata con l'Endeavour com'era nei piani. E speriamo di reggere-”
    Norrington grugnì, un sussulto sorpreso si spanse tra l'equipaggio come fuoco nelle sterpaglie; un vento gelido assalì la nave, scuotendola e spingendola con violenza alla deriva. Fortune si resse al timone cercando di correggere la rotta, ma quello era diventato inamovibile come una montagna. L'Endeavour piroettò una volta tra le grida sorprese dei suoi abitanti, retti ad ogni appiglio disponibile mentre il vento implacabile continuava a respingerla; poi si sentì un forte tonfo cavernoso che si propagò fino alla punta del pennone più alto, facendo tremare la nave come in preda agli spasmi, e il contraccolpo fece cadere in terra tutti quanti tranne Nines, che mantenne l'equilibrio chissà come. Evan cadde a terra e impattò duramente contro il pavimento, con la spalla, una nuova scarica di dolore partì dalla schiena facendolo inarcare con un ringhio. Cercando di ritornare alla realtà, si resse faticosamente in piedi. Aveva già sperimentato una sensazione del genere, quando la Tiburon era finita su una secca.
    Si erano arenati.
    “R...Rapporto!” Farfugliò Norrington alzandosi in piedi. Sorprendentemente aiutò anche Fortune a tirarsi su.
    “Signore... siamo bloccati!” disse un soldato. “La nave è arenata nel ghiaccio!”
    Ghiaccio?!” ripeté Norrington, sconvolto. “Com'è possibile-” Guardò fuori dal parapetto. “Che razza di mostro può ghiacciare l'acqua dei Caraibi?!”
    Evan guardò a propria volta, deglutendo a vuoto. Il mare intorno a Port Royal era diventato una distesa di ghiaccio candido, che sembrava anche parecchio profondo. Il Maelstrom si bloccò un momento, come ad ammirare il proprio operato, prima di tornare ad avanzare.
    “Ci ha bloccati qui!” disse Richard.
    “Ci ammazzerà tutti!” Disse un altro soldato; e presto un chiacchiericcio terrorizzato imperversò tra i soldati, e nemmeno i richiami di Norrington e Fortune riuscivano a calmare le acque. Nessuno poteva dare una risposta, in fondo. Nessuno poteva dare una soluzione. Se anche fossero fuggiti a piedi, avrebbero dovuto combattere. I varchi oscuri avrebbero fatto più danno che altro.
    “Evan...” Nines lo guardava preoccupato. “Che possiamo fare ora?” Sentiva molti sguardi preoccupati su di sé, ma anche speranzosi. Disperati. Era lui quello con l'esperienza nel combattere gli Heartless; era lui quello che doveva dare le soluzioni, anche se non ne aveva in mente neanche una; e altri se ne accorsero.
    “Niente.” Disse Norrington, avvilito. “Abbiamo combattuto, signori. Abbiamo dato a Port Royal tutto il tempo che potevamo.”
    Qualcosa si mosse nel petto di Evan, tremolante, ma sempre più potente, quasi fino a mozzargli il respiro. E qualsiasi cosa fosse, gli faceva tremare le mani, le gambe. Respirava affannosamente, con una trepidazione misteriosa. Guardò l'Ammiraglio, che nel frattempo aveva lasciato andare ogni speranza.
    “Be', allora me ne vado.” disse Sarah. “Non morirò per Port Royal, Norrington. Tu, nanetto albino, aprimi un portale.” Nines esitò. “Sbrigati! E voialtri fareste bene a seguirmi. Meglio correre questo rischio che farsi ammazzare!”
    E poi, qualsiasi cosa fosse, si lasciò andare. Come una fionda, o la tesa corda di una balestra.
    “Hai ragione.” Guardò Sarah, e le sorrise. “Puoi andartene, Fortune. Hai fatto quello che potevi. Possiamo andarcene tutti... ma dove?” No, non era questo. Non era ciò che voleva dire, non era ciò che sentiva dentro di sé e che supplicava di venire a galla. Un fuoco sempre più bruciante e soverchiante, che aveva tenuto chissà come sopito fino ad ora. Perché non aveva voluto vederlo. Non aveva voluto accettarlo. Risalì i gradini che portavano al ponte di comando e si fermò a metà dell'ascesa, voltandosi a guardarli. Spaventati, sconfitti, sfiniti. Litigavano e parlavano tra loro, indecisi sul da farsi, ben lontani dall'essere un esercito o una truppa addestrata; prede facili per quel mostro distruttore, eppure dentro di loro sentiva lo stesso fuoco che ardeva in lui ancora adesso. Il fuoco di chi non aveva nessuna intenzione di morire.
    Doveva solo alimentarlo.
    Si resse alla balaustra, quasi stritolandola. “A ME!” Chiamò; Norrington e Fortune si voltarono, sorpresi. Vide molte facce, tutti i sopravvissuti di quella lunga notte di scontri si radunavano intorno alla scalinata, frementi, tremanti, lanciavano sguardi a lui e al Maelstrom, ai loro capi, a chiunque potesse dar loro coraggio. Speranza.
    Poteva essere lui a dargliela?
    “In questo momento...” Esordì, con voce ferma nonostante i tumulti nel suo petto, nonostante il dolore delle cicatrici, la stanchezza. “Siamo tutto ciò che si frappone fra quella cosa e la città. Port Royal guarda a noi, i suoi difensori, cittadini comuni, e pirati, e soldati della Compagnia! Insieme abbiamo combattuto finora, ma se gli Heartless ci supereranno attaccheranno la popolazione e uccideranno tutti fino all'ultimo bambino, senza distinzioni!” Sguardi tesi lo raggiungevano, si aggrappavano a lui in cerca di risposte. Non aveva mai capito il suo ruolo fino ad ora, né quello di Comandante, né quello di Keyblader. Ma adesso che vedeva quei soldati giovani e vecchi cercare di farsi forza a vicenda, tenere i piedi per terra nonostante il forte e soverchiante desiderio di fuggire, capiva. “Non vi obbligherò a rimanere. So che avete paura, anch'io ne ho!” Ammise, più rassicurante che poteva. “Ma se in voi c'è ancora una scintilla che vi spinge a lottare, a proteggere quelle persone, ascoltatela.” Vide Richard sussultare, stringendo più forte il suo fucile. “Perché in questo momento non siamo pirati, o soldati, o cittadini qualunque.” Sorrise fieramente a tutti loro. “Siamo liberi abitanti di questo mondo! E non importa quanta paura possiamo avere, non importa quanti Heartless ci possano mandare, INSIEME LI FERMEREMO! ANCORA E ANCORA!”
    Richard, Samuel e altri giovani soldati gridarono con furore ancor prima che finisse di parlare; e altri fecero loro eco, finché un unico ruggito non avvolse l'Endeavour come una sfera di fuoco in mezzo a quel gelo terribile. Persino i pirati di Fortune, già pronti a darsela a gambe dopo aver visto il loro Capitano annunciare la sconfitta, puntarono i piedi e levarono le armi unendosi agli altri. Norrington si guardava intorno, sorpreso, e gli si rivolse con un cenno di assenso. Nines osservava la scena ammutolito, quasi cercasse di capire cosa avesse potuto scatenare una simile reazione in persone che, fino a pochi istanti prima, si erano ormai rassegnate alla disfatta. Sentì Sarah mettergli una mano sulla spalla, un'espressione compiaciuta in viso. Il furore rinnovato durò ancora per qualche istante, euforici momenti che sembrarono ridare piena grinta a molti di loro; furono svuotate le armerie della nave, le munizioni e le armi rimaste furono date a chi non ne aveva. Pistole e fucili, lance, sciabole e asce vennero messe in mano a tutti.
    L'Endeavor doveva venir abbandonata; così inclinata era difficile utilizzarla anche per appostarsi e tirare, e non era facilmente difendibile. Sessantadue persone erano rimaste dall'equipaggio originario, altre venti venivano dalla ciurma di Fortune, ventiquattro da coloro che avevano scelto di rimanere indietro.
    Corsero sul ghiaccio mentre il molo, barricato e fortificato, si stagliava davanti a loro per l'ultima difesa; Evan rallentò, fermandosi a guardare il Maelstrom, quella sensazione al petto che ancora non andava via.

    Sorrise, e stese la mano di fronte a sé.

    “Era così facile, vero?” mormorò. “Non occorre un motivo o uno scopo per proteggerli. Per guidarli...”

    Basta volerlo davvero.

    Un luce insperata balenò fra le sue dita in uno scatto del polso. Aliseo, baluginante ai chiarori dell'alba che nemmeno il Maelstrom riusciva a soffocare, ricomparve finalmente nella sua mano; e il suo cuore lo accolse con una gioia inesprimibile. Si portò la mano armata alla fronte, non riuscendo a smettere di sorridere.
    “Bentornato, amico mio.” Disse. “Grazie di essere qui con me, alla fine del viaggio.”
     
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    Il ghiaccio si estendeva davanti a loro per decine di metri; le varie imbarcazioni che avevano spostato per formare una barricata intorno al molo erano rimaste lì incastonate, alcune leggermente divelte, altre direttamente capovolte come una grande scogliera di legno. I cannoni di Fort Charles continuavano a sparare contro il Maelstrom, sul quale ormai lampeggiavano e vorticavano squarci sempre più estesi, gigantesche cicatrici che lasciavano intravedere il rosso sanguigno dell'alba all'orizzonte. C'erano ancora migliaia di Heartless lì dentro, ma i loro sforzi di quella notte non erano stati del tutto vani. La furia del vortice era ben lungi dall'essere placata, la sua velocità invece sembrava diminuita; la creazione improvvisa di quella lastra di ghiaccio non sembrava per nulla arbitraria. Forse aveva cercato di bloccarli, così da impedire loro di continuare a muoversi in mezzo alle sue correnti, e ora che li aveva costretti a terra stava meditando il da farsi. Si domandò se funzionassero come una sorta di mente alveare, capaci di formulare pensieri più complessi del solito semplicemente per la vicinanza gli uni agli altri; ma erano domande per altri momenti. Nel suo vorticare incessante, non fu il solo a notare che il Maelstrom sembrasse essersi fermato, le sue migliaia di occhi tutte puntate su di loro e sulla città; avrebbe voluto avere un'idea più comprensibile di cosa avesse in mente adesso. Il ghiaccio crepitava e strideva vicino al suo corpo vorticoso, riformandosi subito; il freddo la faceva ormai da padrone e piccole nubi di condensa si formavano di fronte al viso dei combattenti, che guardavano al Maelstrom con la paura e il dubbio negli occhi. Anche con il miglior discorso d'incoraggiamento del mondo, persino il più spavaldo e feroce dei combattenti non poteva fare a meno di domandarsi se potesse sopravvivere di fronte ad una creatura simile; l'avevano ferito, respinto e rallentato per tutta la notte, ma il Maelstrom era ancora lì. Si era creato uno stallo, che si sarebbe rotto nell'istante in cui quella massa indefinibile di Heartless avesse deciso di fare sul serio.
    Nella sua mano, Aliseo irradiava un calore incoraggiante; impugnarlo di nuovo era come rincontrare un vecchio amico. Era così strano pensare che fino a qualche mese prima aveva rifiutato così seccamente il Keyblade, il suo ruolo, Sora, perché non si riteneva all'altezza; ma, forse, la verità era solo che aveva avuto paura. Quella responsabilità, un peso enorme che il Keyblade era capace di imporre sulle spalle del suo portatore, era terrificante; eppure gli sembrava di essere stato l'unico a subirne così negativamente gli effetti, arrivando a rinnegarlo, rifiutarlo, lamentarsene di continuo senza riuscire a vederne i lati davvero importanti, quelli che avevano reso lo stesso Sora la fulgida ed eroica figura che tutti avevano imparato ad ammirare prima di Fastus. Gli altri Keyblader avevano accettato il proprio ruolo quasi di buon grado, accusandone solo parzialmente il colpo prima di trovare invischiati in qualche calamità causata però da Fastus, non certo dall'arma.
    Si era chiesto molte volte perché per lui fosse andata così, se avesse qualcosa di sbagliato o se fosse esageratamente sensibile rispetto agli altri; ma forse avevano ragione Basil e Yuki. Era troppo vecchio, non tanto nell'età visto che era solo pochissimi anni più grande di loro, ma nella mentalità. Laddove persone come Basil, Yuki, Matt o Eileen cercavano di trarre sempre il massimo dalla loro situazione e non farsi abbattere nemmeno in un momento di forte frustrazione, Evan non riusciva quasi mai a reggere quella responsabilità allo stesso modo. Sentiva di avere sulle spalle il peso del mondo e di dover essere l'unico a reggerlo anche se non era così; persino adesso, al cospetto dell'enorme Maelstrom che avanzava per distruggere Port Royal, non era solo. La gente di Port Royal era con lui, persone di ogni provenienza ed estrazione, soldati e pirati come mercanti, maniscalchi, pescatori, chiunque fosse in grado di brandire un'arma e usarla per difendere la propria casa si era fatto avanti.
    Questo era il potere nascosto del Keyblade: la sua capacità di far risuonare tutti insieme i cuori delle persone, di farle combattere unite per una causa comune. In quella lunga guerra era un faro in una notte che andava avanti da troppo tempo, e chiunque fosse in cerca di speranza guardava ad esso. E lui l'aveva capito solo ora. Poteva solo sperare che non fosse troppo tardi, se non per lui almeno per loro.
    Arrivati alla barricata, Evan vide che il lavoro fatto da Groves e Gillette era stato più che buono; irte palizzate di legno si ergevano a difesa delle banchine, alcuni cannoni erano stati spostati sulla terraferma. Un centinaio di soldati armati di baionetta erano già in formazione, pronti a mettersi in posizione e iniziare a sparare. Si diceva che il muro di fuoco dell'esercito britannico fosse completamente impenetrabile fintantoché continuava a sparare – c'era da sperare che quelle voci fossero vere. La ciurma della Bella Signora era appostata a propria volta con tutte le armi che avevano recuperato dalla nave o dall'armeria; Fortune guardava alla propria nave con una smorfia sofferente, vedendo che era arenata e ormeggiata in mezzo al ghiaccio alla bell'e meglio anche peggio dell'Endeavour.
    “Sarah!” Esclamò Bela, mettendole le braccia al collo con tanta foga da sorprenderla; Sarah ricambiò l'abbraccio, separandosi subito dopo dalla sua vice. “Sapevo che non ti saresti fatta ammazzare per così poco! Ma vedo che ti manca qualcuno...” Sospirò.
    Sarah annuì con gravità. “Dovevamo tirare dritto.” Disse, tirandosi indietro la treccia. “Sono stata una stupida a tornare indietro.”
    “Avete salvato delle vite, Sarah.” Rispose Evan. “Dovresti rallegrartene.”
    “Vedremo quante vite saranno ancora salve a fine giornata, Comandante.” Ribatté lei. “Farai anche dei bei discorsi, ma quella cosa è ancora tutta intera. Rimango dell'idea che la fuga sia la cosa migliore.”
    “Vicini come siamo?” disse Norrington. “Sembra accelerare quando vuole, Fortune. Potrebbe anche lanciarci addosso di tutto e tagliarci la ritirata.”
    Fortune si trattenne dal rispondergli mordendosi un labbro con rabbia.
    “Ormai il Maelstrom sembra deciso a prendersela con noi.” Disse Evan. “Anche se scappassimo non andremmo lontano.”
    “E allora che dobbiamo fare?” Chiese Richard. “Resistere il più a lungo possibile?”
    “Per il momento non vedo altre scelte.” Evan scosse la testa.
    Anche se li aveva incoraggiati al meglio delle proprie forze per spronarli a combattere per quell'ultimo centimetro di terra che rimaneva, sentiva che la loro paura non era scemata poi tanto e non poteva certo biasimarli; il Maelstrom sembrava una forza implacabile, una vera e propria furia senza freni che travolgeva e distruggeva qualsiasi cosa sul proprio cammino. Aveva rallentato la propria avanzata e mostrava grossi squarci sulla turbinante superficie, ma era ancora lì, una minaccia tangibile che non sapevano come fermare; il cannoneggiamento da Fort Charles arrivava ad intervalli sempre più lunghi, le persone che aveva radunato alla spiaggia non sarebbero durate all'infinito contro gli Heartless. Non contava solo essere soldati addestrati: gli Heartless non erano nemici normali, bisognava essere pronti ad ogni reazione ed evenienza, ogni possibilità. Pensava agli scontri con quelle creature come battaglie di reazione, basate sull'adattamento e sulla prontezza più che su uno schema preciso. Chi non era capace di adeguarsi, moriva.
    Quel giorno sarebbero morte molte persone, a prescindere da quanto si fosse sforzato per evitarlo. Era la realtà della guerra, una che non voleva accettare e che sapeva di dover sempre, sempre contrastare anche quando si ritrovava ad essere l'unico a farlo; altrimenti avrebbe cominciato a valutare quelle persone come nient'altro che numeri di cui tenere a conto con indifferenza.
    La presenza di Aliseo, confortante e incoraggiante, gli faceva sperare di non essere l'unico Keyblader presente. Se solo avesse avuto modo di contattare anche gli altri! La sua Gummiship era lontana e anche chiamandola avrebbero impiegato parecchio tempo ad arrivare, e questo sempre che fossero reperibili in primo luogo. Erano passate due settimane dalla sua partenza, dopotutto. Potevano essere ovunque... e forse, potevano anche non esserci più. Scacciò quel pensiero con rabbia però; voleva avere fiducia in loro e nel loro giudizio. Sperava che in sua assenza stessero comunque cercando di arginare Fastus e di favorire in qualche modo l'Esercito di Sora, anche solo continuando ad essere presenti per i mondi, così da non lasciare sole e indifese le persone che contavano su di loro.
    Con loro al suo fianco... forse ce l'avrebbero fatta. Quella era una minaccia troppo grande per un singolo Keyblader, nemmeno un esercito sembrava in grado di fare davvero qualcosa contro quel mostro. Sopportò un'altra fitta alla schiena, che gli ricordava quanto poco tempo gli rimanesse. Forse sarebbe stramazzato a terra nel bel mezzo del combattimento; sperava di potersene andare almeno eliminando in qualche modo quella creatura. Se doveva morire, almeno voleva farlo lasciandosi alle spalle qualcosa di buono.
    “Evan, Heartless!” La voce di Nines lo richiamò alla realtà. “Stanno scendendo dal Maelstrom!”
    “Forse non può mantenere quella forma sulla terraferma.” Ipotizzò Evan. Il Maelstrom pulsava con grandi bagliori che lo percorrevano come lampi in una tempesta; spire nere si abbattevano in acqua e sul ghiaccio, sollevando grandi frammenti cristallini che si tingevano d'oro sotto il sorgere del sole. “Se toccheranno terra saranno migliaia, quindi sapete cosa evitare ad ogni costo!” Puntò Aliseo di fronte a sé, e i soldati imbracciarono le armi. “Fucilieri, puntare!” Ordinò con voce potente; se pensava che un giorno avrebbe voluto dirlo davvero, in quel mondo, al comando di una grande nave da battaglia come la Dauntless... e adesso era tornato a Port Royal da reietto, come un generale straniero, a dare ordini a un esercito dato in prestito. Contavano su di lui, guardavano a lui per superare quella battaglia. In cuor suo, Evan non voleva deluderli.
    Gli Heartless caricavano in massa, una masnada disordinata di creature dalle varie forme, i piccoli Shadow che avanzavano in testa immersi nell'ombra, seguiti da Soldato e Lanciere, Arciere, Cavaliere, persino Fantino d'Assalto e altri dalle forme più bizzarre e meno riconoscibili. Evan imbracciò un fucile a propria volta, venature d'argento lo percorsero come se una nuova linfa vi scorresse all'interno.
    “Fermi...” Intimò. “Fermi...” Nines, accanto a Richard, teneva puntata la pistola contro il mucchio. Trattenne il respiro. Aveva tirato così poco con quei fucili in tutta la propria vita, superando a malapena l'addestramento di base – non si era mai trovato a proprio agio. Gli Heartless divennero abbastanza vicini da essere distinguibili. Norrington, Fortune, Bela, imbracciavano fucili a propria volta.
    “FUOCO!” Gridò, sparando un proiettile lucente che squarciò almeno quattro Heartless riducendoli in polvere; dalla linea di fuoco partì in un unico istante una pioggia di proiettili, e mentre i compagni ricaricavano la seconda linea avanzò sparando un'altra serie di colpi. Decine di quei mostri caddero in fiotti di polvere, rovinando a terra e facendo incespicare anche i compagni intorno a loro; un grosso fantino cadde crivellato da un numero imprecisato di pallottole e rovinò contro un gruppo accanto, schiacciandoli e obbligandoli ad aggirarlo.
    Ma non avrebbe commesso l'errore del Bastione una seconda volta. “Nines, scandisci il ritmo! Che sparino finché hanno munizioni!” Brandì lo scudo, mettendo un piede sul limitare del molo. “Con me! Difendiamo l'imboccatura!” Gridò, e si lanciò sulla spessa lastra di ghiaccio; la barricata era sufficientemente innalzata da evitare colpi accidentali, e i moli si erano trovati a circa due metri d'altezza rispetto all'acqua, forse perché il Maelstrom aveva fatto ritirare l'acqua nel suo moto turbinante.
    Evan roteò il fucile e conficcò la baionetta in terra, spandendo crepe con un tremito che percorse il ghiaccio per alcuni metri; le ombre degli Shadow gli sciamarono intorno, attirate dal Keyblade e dalla magia, e si trovarono innalzate per aria attirate verso un vorticante punto centrale. Al contatto con le creature esso esplose, facendo schizzare polvere nera in ogni direzione. Era riuscito nell'intento di attirarne l'attenzione, e gli Shadow affiorarono dal ghiaccio caricandolo giusto in tempo perché i combattenti armati d'asce, sciabole e lance si gettassero nella mischia con un grido feroce; ben presto le linee si confusero, e ad Evan parve di distinguere Kurama in mezzo alla battaglia – ma le ondate di Heartless si fecero troppo fitte perché potesse vedere troppo al di là delle proprie immediate vicinanze.
    Con ancora il fucile in mano tirò un violento colpo col calcio ad un Heartless mummificato, voltandogli brutalmente la testa con il rumore di ossa spezzate, e gli conficcò in petto la baionetta con un altro scoppio di luce; il fucile si disintegrò nell'impatto assieme all'Heartless, mentre lui respingeva uno Shadow che gli voleva saltare in testa con un colpo di scudo; Aliseo tornò alla sua mano e descrisse ampi fendenti luminosi, creando squarci nel petto di diversi nemici che volevano circondarlo. Attorno a lui c'erano persone di ogni estrazione sociale, indistinguibili nella propria furia e desiderio di sopravvivere, pirati e soldati che si aiutavano a vicenda, comuni mercanti, panettieri e fabbri che dimostravano di non essere da meno se la necessità lo richiedeva; e non solo uomini, ma anche donne e persino alcuni uomini anziani ma ancora capaci di imbracciare le armi. Era come se l'intera Port Royal, quasi una manifestazione di quello stesso mondo, fosse scesa in campo al suo fianco; in lontananza vedeva Norrington e Fortune che continuavano a sparare sotto il comando di Nines, che scandiva alla perfezione il tempo delle raffiche e faceva sì che i soldati non puntassero le armi troppo in basso grazie a conoscenze della fisica e capacità di previsione delle traiettorie che nessuno avrebbe mai avuto a Port Royal.
    Piroettò sotto la lancia di un Fantino d'Assalto, trovandola subito dopo quando tentò di tagliargli una gamba; dovette riparsi dietro lo scudo per evitare un colpo di zoccoli, ma fu respinto e quasi travolse diverse persone. Trafisse uno Shadow tramortito e scattò sotto il Fantino mentre quello balzava per affondargli la lancia in petto, squarciandogli il ventre; il Fantino crollò a terra, finito da un pirata a colpi d'ascia.
    La formazione di Heartless era sempre più voluminosa; sempre di più si riversavano sul ghiaccio, espandendosi come una macchia di petrolio. Evan raccolse le forze e si lanciò in avanti, falciando alcuni Heartless che caddero ai suoi piedi come grano maturo, mentre l'ancora di Aliseo si spalancava come un paio d'ali e le sue vele si gonfiavano sotto un invisibile, arcano vento di tempesta. Evan balzò in aria, avvolto nella luce come il fiammeggiante proiettile di un trabocco, Aliseo impugnata di traverso; il Keyblader si abbatté a terra con un grido, conficcando Aliseo nel ghiaccio; e intorno a lui si scatenò una tempesta di lame di vento che fecero a brandelli decine di Heartless, un turbine che infuriò per un istante e si ritirò nella lama, prima di scoppiare di nuovo sotto forma di una gigantesca onda di luce che travolse qualsiasi Heartless nel raggio di almeno una decina di metri, incenerendoli o scaraventandoli dappertutto.
    Si rialzò in piedi, Aliseo che emetteva vapori biancastri. Guardinghi, gli Heartless esitarono; ma con la coda dell'occhio vide che decine di altri Heartless dall'aspetto di barili con zampe di ragno. Erano così tanti che non avrebbe saputo contarli, e avanzavano verso la barricata.
    Era un diversivo?
    All'imboccatura che portava alle barricate, la gente continuava a combattere ignara del pericolo. Strabuzzando gli occhi, vide che gli Heartless-ragno non stavano andando verso il centro, ma verso le barricate; il sospetto su cosa volessero fare non tardò a balenargli in mente, e nella foga della battaglia difficilmente l'avrebbero ascoltato.
    “Ti prego...” mormorò, quasi stritolando l'impugnatura dello scudo prima di lanciarlo verso il fitto della battaglia; il disco metallico andò a fermarsi sull'imboccatura, formando una barriera bianco-grigiastra che cercò di comprendere quante più persone possibile; teneva le mani puntate verso di loro, dimentico degli Heartless che stavano riprendendo confidenza, i suoi occhi puntati solo su quelli che correvano verso la barricata. “Proteggili!”
    Nel momento in cui i barili si scontrarono con la barricata di navi, decine di esplosioni si avvicendarono in un'unica cacofonia di distruzione; la sua barriera resse a malapena, ma nel fumo, nella polvere e nella cenere, riuscì solo a vederla andare in frantumi, del tutto inefficace per proteggere tutti quanti; le esplosioni quasi gli sfondarono le orecchie e dovette tapparsele, il fumo si innalzò verso il cielo, pezzi di legno schizzarono dappertutto investendo Heartless e combattenti in egual misura. Persino da lì era ben evidente che si fosse scatenato il caos; ed Evan fece per recarsi subito sul posto, sperando di poter almeno riequilibrare la situazione. Gli sembrò di vedere sempre più persone ora che il fumo andava diradandosi e questo gli fece pensare che forse la sua barriera aveva funzionato meglio del previsto...
    Prima che potesse avanzare verso l'imboccatura e valutare i danni alla barricata sentì un sibilo nell'aria.
    L'istinto lo portò a voltarsi e vide qualcosa, come un'immensa massa di fumo nero, piombare con decisione verso di lui; non fece in tempo a richiamare lo scudo, poté solo scostarsi, ma essa piombò nel ghiaccio con una tale onda d'urto che si ritrovò scaraventato all'indietro, rotolando per diversi metri fino a toccare lo scafo della Bella Signora.

    ”Gallaway...”



    Una voce raspante, come metallo contro il vetro, parlò nelle sue orecchie. Solo sentirla gli causò una scarica di dolore che si estese dalla testa fino alla schiena, facendolo gemere spaventato e ferito. In mezzo al fumo nero, una sagoma umanoide prendeva forma levandosi lentamente da terra, il corpo percorso da tremori e spasmi, occhi rossi che luccicavano in mezzo al fumo come torce nella notte.

    ”Gallaway... Gallaway...”



    Era come un ringhio furibondo di una bestia proveniente dal più nero degli incubi. Una falce luccicava alla sua mano, la sua schiena, le sue spalle, le sue gambe, continuavano a scattare come se all'improvviso i suoi movimenti accelerassero e rallentassero in virtù di stimoli sconosciuti. Il suo corpo emanava quel denso fumo nero simile a polvere, e notò che persino gli Heartless sembravano spaventati. Evan deglutì a vuoto.
    Quella creatura conosceva il suo cognome.

    ”ETHAN... GALLAWAAAAAAY!”



    Evan riuscì a malapena a schivare il colpo, prima che quell'essere si schiantasse di peso contro lo scafo; si chiese se gli mancasse ogni spirito di autoconservazione, se fosse un Unversed o un Heartless impazzito – ma per ora poté solo riprendere in mano lo scudo e proteggersi da un altro fendente. Il braccio sembrò sul punto di spezzarsi sotto quel colpo; crepe si formarono nel ghiaccio ai suoi piedi. Il suo misterioso assalitore si lanciò contro di lui in un tornado di fendenti sibilanti, la falce che saettava sempre troppo vicina a lui, e ogni volta che toccava lo scudo lo sbalzava all'indietro spedendogli scariche di dolore lungo il braccio; era troppo forte. Non poteva neppure sperare di incontrare la sua lama; tentò di colpirlo a propria volta, di ribattere, ma quello schivava con agilità inumana e riprendeva a colpirlo. Gli lanciò contro un proiettile luminoso, che si infranse sul suo strano e lucido elmetto nero senza fargli un graffio.

    ”INUTILE!”



    Un altro colpo parato a malapena lo spedì di nuovo lontano, e subito quello arrivò in un balzo per finirlo. Evan parò e si trovò la falce agganciata allo scudo. Con uno strattone che sembrò potergli strappare il braccio stesso, quell'essere gli sfilò lo scudo, facendolo rotolare lontano da lui. Evan schivò, cercando di contrattaccare e trovando una difesa serrata; falce e Keyblade si scontrarono con scintille fiammeggianti, finché l'aggressore non balzò all'indietro lanciando una torma di coltelli che sfondarono la barriera di Evan, lacerandogli una gamba e un fianco. Cadde a terra con un gemito e richiamò lo scudo, sentendo un'improvvisa, folle paura impadronirsi di lui. Quel mostro non somigliava a niente che avesse mai affrontato prima d'ora. Era senza volto, ripeteva solo il suo nome. Sembrava agile e sfuggente, quasi gracile, ma torreggiava su di lui come una montagna.
    Fece perno sulla gamba sana e parò il colpo come poteva, cadendo in ginocchio.
    “Che... vuoi da me...?” Biascicò. “Chi diavolo sei?!”
    L'essere si fermò. Il Maelstrom tuonò, un vento gelido li investì; e d'un tratto fu come se l'aria stessa venisse risucchiata. Si voltò verso l'enorme massa di Heartless e vide che qualcosa si stava addensando, una gigantesca formazione che luccicava sinistramente, malata, oscura. Il Maelstrom palpitò e un nuovo tuono lo percorse. Sentì la pressione su di sé diminuire – l'essere che stava affrontando si era subito disimpegnato dal combattimento. Guardò verso il Maelstrom, poi verso di lui; e senza dire altro, fu di nuovo avvolto da un turbine di fumo nero e balzò all'indietro, svanendovi all'interno così com'era arrivato. Tremante per il dolore e con i movimenti rallentati e ostacolati dalle ferite, Evan incespicò a fatica per rimettersi in piedi. Perdeva copiosamente sangue dalla coscia sinistra e faticava persino a poggiare la gamba; respirò affannosamente, vedendo che la battaglia era degenerata del tutto. Sapevano che sarebbe successo. Sapevano che stavano combattendo per sacrificarsi. Eppure, vedere la barricata distrutta e gli Heartless affollarsi intorno ai difensori lo schiacciava sotto il colossale e sconfortante peso del fallimento.

    Aveva...
    Aveva di nuovo sbagliato tutto?

    Non poteva pensarlo. Con la forza concessagli, strinse più forte Aliseo. Se avesse di nuovo indugiato nell'autocommiserazione, piangendosi addosso perché la battaglia andava male, che senso avrebbe avuto essere arrivato fin lì? Perché riprendere sulle spalle la responsabilità di un esercito, di persone che contavano su di lui, per poi avere solo l'istinto di fuggire?
    Sentiva la testa leggera, un rivolo di sangue caldo gli scendeva dalla fronte, macchiandogli la vista di rosso. Provò a muovere un tremante passo in avanti, verso la battaglia. Gli Heartless lo evitavano come se non valesse più la pena di affrontarlo; e il Maelstrom continuava a tuonare e ribollire, quella strana massa oscura che lampeggiava sempre di più.
    Non sarebbe scappato di nuovo. Aveva promesso di non rifarlo. Voleva vivere, anche con le forze che gli rimanevano pensava solo a tornare a casa e dimenticarsi quei giorni, riabbracciare Nate, stringere Eileen tra le braccia e baciarla ripetendole ogni giorno quanto l'amasse e quanto lei fosse importante per lui anche se non la meritava nemmeno.
    “EVAN!” sentì gridare. Sentiva una stanchezza improvvisa impadronirsi di lui. Forse stava perdendo troppo sangue. Forse quel coltello di prima aveva fatto più danni di quanto immaginasse. Vide Nines correre verso di lui a perdifiato, incespicando ed evitando gli Heartless come poteva. Stava...
    “Nines...” mormorò, inaudibile per chiunque. “Va tutto bene...”
    Ma l'istinto non l'aveva ancora abbandonato, e si voltò tanto fulmineamente verso il Maelstrom da sentire un giramento di testa; e vide che quella massa oscura, adesso, sembrava in procinto di sparare qualcosa verso il ghiaccio. Verso di lui.

    Se solo ci fosse stato qualcun altro.

    Levò Aliseo verso Nines. Sorridendogli, gli materializzò intorno una barriera. Una cupa luce brillò alle sue spalle; ma non voleva guardarla. Voleva guardare la sua casa, se proprio doveva andarsene. Se doveva morire, voleva guardare la sua gente. E, fino all'ultimo, voleva rassicurare Nines, che batteva i pugni contro la barriera nel tentativo di romperla.
    “SCAPPA!” Gridò Nines. “SCAPPA, EVAN!”
    Non poteva farlo. Le sue energie erano agli sgoccioli. Aveva combattuto tutta la notte, guidato una battaglia con tutte le proprie forze. Aveva fatto tutto il possibile.

    Se solo li avessi portati con me...

    La luce lo inghiottì, sommergendo ogni cosa. Sentì l'urto contro di sé, un'energia incandescente e terribile dalla quale Aliseo, quasi automaticamente, cercò di proteggerlo; ma non poté impedire che il ghiaccio intorno a lui si frantumasse, né che a un certo punto le gelide acque dell'oceano lo avvolgessero facendolo sprofondare sotto la spinta di quell'energia oscura.
    Credeva di sentire un dolore terribile; eppure, ironicamente, non aveva quasi sentito nulla. Era stato tutto così rapido, come se quell'Heartless avesse voluto onorarlo con una morte veloce, indolore. Affondava, poteva intravedere in mezzo alle scure acque la base del Maelstrom formata da altri Heartless vorticanti, così tanti da perderne il conto.
    Mentre la vita lo abbandonava, poté solo lanciare una preghiera al cielo. Tese una mano verso l'alto, sentendo gli occhi bruciargli per le lacrime che si perdevano nell'infinita volta oceanica. Pregò, pregò che quel mostro non uccidesse tutte quelle persone. Pregò che la sua furia li risparmiasse, che si dissolvesse e tornasse nel nulla da cui era venuto.
    Pregò, e supplicò che qualcuno lo ascoltasse. Che qualcuno, da qualche parte in quell'immenso e spietato universo, riuscisse a sentirlo. Eileen, Gilbert, Fate, Darian, Kattos, Tobio, Aerith, Basil, Kouichi, Antonio, Nekibi, Matt... persino Sora. Avrebbe rimesso la propria vita a Fastus in persona, se fosse servito a salvare Port Royal, a proteggere quelle persone che combattevano all'ultimo respiro.
    Evan non sapeva. Non sapeva che qualsiasi persona legata a lui da amore e da amicizia, in quell'esatto momento, avrebbe sentito una forte stretta al cuore e un richiamo, lontano e disperato; più forte per i Keyblader, ma meno comprensibile per chi non lo era. Non avrebbe visto Nate aggrapparsi al recinto della nursery, chiamando il suo papà con tanta foga da allarmare Aerith; non avrebbe saputo che tutti coloro che aveva chiamato inconsciamente avrebbero potuto, se ne avessero avuto il modo o il desiderio, raggiungerlo davvero. Non avrebbe potuto vedere colonne di luce bianca piovere dal cielo come stelle cadenti, che recavano con loro chi aveva avuto modo di arrivare a Port Royal. Essi si sarebbero trovati sul ghiaccio, ignari di dove fosse Evan, con una battaglia da combattere.
    E mentre affondava, perdendo i sensi, gli parve di vedere delle luci nel cielo, oltre il ghiaccio, oltre l'oscurità. Luci che brillavano in risposta alla sua preghiera; e una sagoma scendeva verso di lui, quelle luci la circondavano come le ali di un angelo.

    Sora.

    La sua mano si strinse attorno alla sua, tesa e ancora in cerca d'aiuto. Era calda, un tocco leggero che gli donava conforto e riposo. Aveva fallito. Non aveva mantenuto la promessa. Eppure...

    Si sentiva così felice di vederlo.

    ”Evan...”

    Non poteva rispondergli; ma per lui fu come se l'avesse fatto.

    ”Vuoi abbandonarli, Evan? Vuoi riposare?”

    Sora gli sorrise, persino i suoi occhi completamente bianchi sembravano allegri. Il suo sguardo era una risposta sufficiente. Strizzò le palpebre, negando con tutte le sue misere forze. Sapeva di stare piangendo.

    ”Vieni con me...”

    Il sole gli carezzò la pelle.
    Quando riaprì gli occhi, era di nuovo in quel crocevia.

    Edited by Evan Gallaway - 22/2/2023, 16:07
     
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    Regulus avrebbe dovuto lasciarsi Port Royal alle spalle.
    Abbandonare tutto con un varco oscuro e tornarsene a casa. Finita la missione, salutato Kurama e coloro che lo avevano affiancato in quell'assurda missione, se ne era andato. E lì sarebbe dovuto finire il suo effettivo coinvolgimento: era tempo di pensare, ora, a tutto ciò che veniva dopo. Alla sicurezza di Harry, alla proposta di Radiant Garden, a come approcciare gli altri Turk e Soldier a riguardo del Progetto SKYFALL senza farsi denunciare direttamente a Rufus Shinra o peggio.
    Cosa gliene poteva importare di un mondo a caso nell'universo? In quel sistema così grande, pieno di posti forse messi addirittura in maniera peggiore. Aiutare i suoi abitanti in un momento critico, aiutare Gallaway, era stato un conto... forse anche derivante dal suo stesso senso di colpa. Aiutare come non aveva potuto fare a Midgar, come non poteva fare - legato ad un ruolo che in realtà faceva male ai suoi abitanti, invece di supportarli come avrebbe dovuto. Ma insistere, tornare, continuare? No, quello no. Doveva abbandonare Port Royal.
    Eppure in qualche modo non ci era riuscito.
    I prigionieri viaggiavano spediti al sicuro, lontano da quel posto di morte. Il loro compito era finito, eppure forse c'era ancora qualcosa che non riusciva a lasciarsi indietro. Forse il fatto che Gallaway fosse ancora lì - a prendersi potenzialmente la colpa di tutto quanto. Non che non fosse in realtà l'architetto, la mente responsabile dietro tutto ciò che era accaduto, ma non era di certo stato l'unico.
    Qualunque fosse la questione ci si ritrovava magneticamente attratto - tanto che alla fine, nonostante qualche giorno di attesa involontaria, aveva deciso di aprire un varco oscuro proprio per la città portuaria. Forse voleva solo poter controllare che uno dei pochi Keyblader che avevano superato la pubertà fosse sopravvissuto, forse voleva semplicemente assicurarsi che Cutler Beckett non si stesse sfogando con gli abitanti rimanenti in un orrendo tentativo di ripopolare le celle della fortezza.
    Si aspettava di trovare una città in subbuglio, soldati a pattugliare ogni casa, forse addirittura il povero Gallaway a penzolare da una forca.
    Non si aspettava una città fantasma, un mare ghiacciato, e un tornado di Heartless all'orizzonte.
    "Oh santo...!" Si ritrovò ad esclamare il giovane, guardando strabuzzando gli occhi verso ciò che si stagliava sull'oceano. Sua madre, se lo avesse visto con la bocca così aperta a prender mosche, gli avrebbe tirato forti schiaffi sulle labbra finché non l'avesse richiusa e avesse assunto un'espressione consona al suo status, ma come poteva? Non aveva mai visto nulla del genere! Anni di servizio nei Turk, aveva viaggiato i mondi ultimamente, osservato ciò che era rimasto dell'attacco di Partizan, visto i rapporti di Shibuya, eppure... mai, mai così tanti Heartless uniti, tutti insieme.
    Che cosa stava succedendo a Port Royal? Era un caso? La presenza di un Keyblader li aveva attirati così in massa? Eppure c'erano tanti altri mondi in cui i Keyblader avevano soggiornato, mondi che non erano protetti da barriere come quelle di Shibuya o Radiant Garden, quindi qual era la differenza? Che Gallaway non c'entrasse in alcun modo? Che fosse solo un assurdo caso?
    Era arrivato nella parte più esterna della città, in un vicolo dove sapeva non sarebbe stato scoperto da alcuna guardia per il varco oscuro. Da qui poteva osservare ciò che stava accadendo da lontano, ma non abbastanza da poter discendere gli effettivi avvenimenti. La città era deserta: dovevano averla evacuata oppure erano tutti morti. Le soluzioni potevano essere solo due e l'ultima era decisamente sconfortante.
    Doveva scendere verso l'oceano, capire cosa stesse succedendo - anche se si fosse ritrovato da solo, avesse scoperto che erano tutti morti e rimanevano soltanto Heartless, almeno avrebbe così controllato ciò che stava accadendo.
    C'erano Heartless anche nella città - Shadow principalmente, ma anche qualche Soldato, pochi Blu Ciccio. Regulus dubitava che derivassero dal tornado in lontananza, se fosse stato così ce ne sarebbero stati molti, molti altri. No, dovevano essere Heartless "normali", attirati a Port Royal come lo erano di solito, intrufolatisi a cercare cuori nella tragedia.
    Regulus non aveva problemi a tirare fuori la pistola, soprattutto perché non c'era nessuno lì presente a giudicarlo per avere un'arma molto più moderna rispetto agli standard del mondo - e non aveva alcun problema soprattutto a difendersi con la magia. Forse proprio perché gli abitanti di Port Royal erano morti o lontani, in molti si girarono verso di lui: un Fire al momento giusto, un proiettile in un altro, e gli permisero di farsi strada senza problemi, quasi fino al molo.
    Più ci si avvicinava, più in realtà le creature aumentavano: dovevano star andando verso... sembrava una nave? Sparava colpi di cannone, quindi c'erano delle persone lì sopra ma... era bloccata nei ghiacci. Certamente gli Heartless cercavano di raggiungerla, sia quelli del tornado, che questi...! Ovviamente, andavano verso la più massiccia presenza di cuori lì presente. Regulus aumentò le sue magie, ed era già pronto a dar fondo alle sue riserve magiche quando, avvicinandosi, vide in lontananza una figura minuta far fuori due Disertori. Per un attimo, gli sembrò che avesse in mano una lama - ma sbatté le palpebre e al secondo dopo, l'arma non c'era più. La ragazzina si voltò verso di lui, tranquilla, come se non fosse nel bel mezzo di un'invasione di Heartless.
    Regulus la fissò. E forse era l'adrenalina della corsa, forse lo shock, ma non riuscì a trattenersi. "Ma tu sei...? Io ti ho già vista- nei rapporti-" La guardò incredulo. "Sei uno dei Tre-"
    "Questo non è un attacco della guerra!" Un altro ragazzo, vestito con una felpa coloratissima e decisamente anacronistica, spuntò da dietro una casa, pulendosi una manica da residui d'oscurità di un Heartless appena eliminato. No, aspetta... purificato? "Fastus non ce l'ha con Port Royal, per ora."
    "Aiutiamo." Mormorò la ragazzina. "Per ora."
    "Già." Regulus sussultò - qualcuno gli era scivolato alle spalle, stringendogliele con le mani. Si ritrovò, nonostante la sua esperienza, il suo carattere, le sue abilità, ad essere immobilizzato - paura, sorpresa? Non lo sapeva neppure lui. La voce era maschile, e gli sussurrava all'orecchio. "Alla città ci pensiamo noi, non saremmo ben visti da certa gente llì~. Portate i miei saluti al Comandante, che cosa ne dite?"
    Si sentì spingere prima che potesse anche solo dire "ah" - la familiarità di un varco oscuro lo accolse.
    Pochi attimi dopo, atterrava con le ginocchia su uno spesso strato di ghiaccio, e poteva vedere fin troppo da vicino, seppur ancora lontano, quel Maelstromdi Heartless.

    Rimase per un po' fermo, la visione troppo assurda, quello che era successo troppo inaspettato. Aveva bisogno di un po' di fiato, per carità! Le crisi che affrontava di solito non prevedevano nemmeno quelle creature, e ora... Ora si trovava dritto nell'occhio del ciclone.
    Beh, non letteralmente, o sarebbe già stato divorato di colpo.
    Da quella posizione in particolare, poteva vedere molte cose: una nave che continuava a sparare, gli sforzi di alcuni soldati sulla terra ferma, dietro barricate improvvisamente, persone che dal suo punto precedente non aveva potuto notare. Combattevano tutti, fino allo stremo... Ma dov'era Gallaway? Dov'era il Keyblader di Port Royal, se non a difendere la sua gente?
    Si rialzò, barcollando un po' a fatica per il ghiaccio- non erano quelle le scarpe adatte di certo! Era convinto di star viaggiando in un luogo tropicale, aveva modificato la sua divisa di conseguenza... Sperando di non scivolare, perché quella sì che sarebbe stata una fine meno dignitosa rispetto ad aver il cuore divorato da centinaia, se non migliaia di Heartless! No, da qui sembravano decisamente migliaia... Cosa aveva spinto degli Heartless a riunirsi così? Potevano farlo, effettivamente? Regulus non ne aveva mai sentito parlare prima! ù
    A differenza della città, qui gli Shadow che si riversavano sul ghiaccio cadevano a fitte dal tornado in lontananza, e sembravano decisamente più veloci e resistenti delle creature che Regulus normalmente incontrava. Ringraziò di non aver dovuto farsi strada per tutto il percorso dalla città fino a qui combattendo, perché ora avrebbe dovuto concentrarsi seriamente sul sopravvivere. Più che altro, erano numerosi - troppo numerosi.
    La sua corsa venne interrotta, quasi in scivolata, solo quando qualcosa apparve nel cielo. Raggi di luce che illuminarono Port Royal, in più punti del ghiaccio sparsi. Erano altre creature? Erano dei soccorsi? Di solito gli Heartless non si illuminavano di luce dorata quando arrivavano, ma di solito gli Heartless non si radunavano nemmeno in un ciclone di morte e distruzione, quindi il mondo di Regulus poteva tranquillamente esser stato stravolto a tal punto. Due luci in lontananza alla sua destra, una ancora più lontana- c'era una figura avvolta dalle fiamme? Era troppo lontana per poter capire.
    Due luci "atterrarono" sul ghiaccio più vicino a Regulus delle altre, così cominciò a correre nuovamente, verso di loro. Se fossero stati Heartless troppo potenti, se ne sarebbe semplicemente andato - quantomeno in questo modo avrebbe potuto controllare cosa stesse succedendo da vicino.
    Le due figure gli davano le spalle, guardavano verso il tornado. "Oh cielo." Stava dicendo una di loro, sconsolata. "Quelli sono davvero tanti Heartless..." La persona si voltò di lato, per osservare meglio lo spettacolo in lontananza, e per un attimo a Regulus mancò un battito del cuore.
    Fastus!? Avrebbe voluto urlare, fare un passo indietro e darsela letteralmente a gambe - non era la stessa cosa di trovarsi di fronte un Keyblader all'improvviso, non era la stessa cosa di trovarsi di fronte un membro dell'Esercito di Fastus, nemmeno uno dei suoi Tredici! Che cosa ci faceva Fastus lì? A pochi metri da lui, così vicino da poterlo uccidere anche solo con lo sguardo...
    Ma ad un'altra occhiata, Regulus si rese conto che, no, non si trattava assolutamente di Fastus. Di fronte a lui non c'era un ragazzo, ma una persona adulta, matura. E non si trattava di un maschio, ma di una donna - ma per il resto, si trattava di qualcuno di completamente identico a ciò che avevano visto sugli schermi di Shibuya, a tutte le descrizioni date sul malvagio Unversed che giravano per l'Universo. Lo stesso colore di capelli, la stessa forma del viso, lo stesso naso. Differenziavano in qualche tratto fisico, e sugli occhi, ma dove lì non poteva riconoscerci Fastus, ci poteva riconoscere il suo corpo, Sora. La donna aveva i capelli raccolti in una crocchia disordinata, un grembiule sporco di terra addosso, e dei guanti da giardinaggio addosso - come se fosse stata prelevata con forza dalle faccende domestiche.
    "Tanti? Ah! Se arrivasse anche Fastus sarei meno sorpreso." Esclamò l'altra figura, un uomo molto alto - e lì Regulus poté riconoscere il resto dell'Unversed che non aveva intravisto nella donna. "Lì c'è una nave. Pensi che-"
    "Oh, non iniziare nemmeno!" Lo rimbeccò lei, agitando un dito. "Non sono più incinta, e poi qualche trucchetto da Vincent l'ho imparato. Non sarò brava come i nostri figli, ma calci a qualche insetto malcresciuto li saprò tirare!" La donna incrociò le braccia, fissando l'altro torva. "E poi ricordati che siamo qui grazie a me."
    "Cocciuta, sei cocciuta, poi chiamano me il testardo. Bah..." L'uomo scosse la testa. Aveva in mano una scopa, anche lui a quanto pare sembrava essere stato tirato fuori in un momento di quotidianità. "E poi lo sento anche io Evan, non solo tu, e quell'idiota è sott'acqua. Perché mai è sott'acqua?"
    "Gallaway è sott'acqua?!" Si lasciò sfuggire Regulus inorridito, ed i due si voltarono entrambi verso di lui, rendendosi finalmente conto di non essere soli. "Sotto il GHIACCIO?"
    "Non per molto, ora che ci sono io." Dichiarò l'uomo, adocchiando il ghiaccio. "Chissà qual è il punto migliore per entrare...."
    "La nave, magari. Dove potresti andare tranquillo, magari così riescono a spostarla." La donna suggerì, con un sorrisetto. "Sono sempre stata più brava di te a nuotare."
    "Tesoro... sono letteralmente un pescatore-"
    Il loro "battibecco" (che tale non era, perché non c'era davvero ostilità nella voce dei due potenziali coniugi?) si bloccò quando tutti e tre poterono notare, in lontananza, un bel gruppo di Heartless arrivare - strisciando sopra e sotto il ghiaccio, puntando a tutti e tre. L'uomo mise davanti a sé la scopa a protezione, la donna portò avanti le mani guantate, un po' incerta nella posa, ma con lo sguardo deciso.
    "Hey, signor damerino, spero tu sappia combattere." Esclamò l'uomo. "Perché qui la vedo un po' male."
     
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    Evan non era più ritornato. La scusa che fosse partito per una missione speciale ormai aveva ben poco di credibile, ed era sempre più chiaro che il Comandante avesse in realtà abbandonato Radiant Garden, e chissà quando o se mai avrebbe fatto ritorno.
    Avevo evitato di intromettermi nelle politiche di quel mondo, dopotutto c'erano già i fratelli Walker ad occuparsene, in particolare Eileen, l'altra Keyblader del Fulmine che avevo incontrato a Shibuya ai tempi del mio arresto. Stava già compiendo un ottimo lavoro da sola, e non credevo che il mio aiuto potesse essere né utile, né ben gradito, considerando pure la pessima fama che dovevo avere a Radiant Garden. Ero pur sempre il Keyblader assassino, l'incapace ragazzino che quando fu scelto dall'arma non fece altro che causare problemi sul campo di battaglia, fino a macchiarsi dell'omicidio di uno degli uomini più amati e valorosi del suo esercito… E da allora quel ragazzino non aveva fatto altro che scappare e nascondersi, per leccarsi le ferite e crogiolarsi nel dolore ed i sensi di colpa, schiacciato dal peso che quella nuova responsabilità aveva portato. Non sapevo se le trasmissioni di Shibuya avessero davvero cambiato questa percezione, se la gente di Radiant Garden avesse iniziato a rivalutarmi almeno un poco, eppure mi sembrava di ricevere solo sguardi di quieta diffidenza. E del resto non potevo biasimarli… ma forse ero solo io, fin troppo critico nei confronti di me stesso, come al solito.
    Anche dopo Shibuya, la situazione era tornata ad essere pressoché la stessa. Era vero, mi tenevo forse fin troppo impegnato ad aiutare il mio mondo, ma la realtà era che quella situazione era poco a poco diventata una vera e propria prigione… Una prigione che io stesso avevo costruito intorno a me stesso, per proteggermi. Possedevo la chiave per liberarmi, sì… ma era come se io stesso decidessi di non usarla. Anche dopo Shibuya, anche dopo la mia stessa morte, sentivo di non essere poi davvero cambiato così tanto. Ero ancora bloccato, dalla paura, dai dubbi, dal rimpianto. Quale doveva essere il mio prossimo passo? E se davvero avessi fallito ancora una volta? Era come cercare di farsi strada nell'oscurità, muovendo ogni piccolo passo con incertezza, sperando che il prossimo non conducesse alla rovina. Il peso di una scelta allora diventava soverchiante, al punto da costringermi a rimanere fermo, in una paralisi del volere che mi impediva di compiere persino un semplice passo in qualunque direzione. Per Zeus, persino il mio Keyblade stava sbiadendo ogni giorno che passava! Come se stesse lentamente perdendo la propria linfa vitale, come un animale intrappolato in uno spazio troppo piccolo ed angusto a cui lentamente veniva a mancare l'ossigeno necessario a sopravvivere. No, questo decisamente non era un buon segno… e se c'era qualcosa che avevo imparato dalla mia esperienza personale e da quella di Gilbert ed Evan, era proprio lo stretto legame che c'era fra il Keyblade ed il Cuore del proprio Custode.
    Qualcosa andava fatto, ma cosa…?

    Forse Evan non era l'unico ad aver bisogno di spazio e tempo per sé stesso…

    Ogni volta che pensavo a lui, il mio cuore veniva attanagliato dal dolore e dai sensi di colpa.
    "Avrei potuto fare di più."
    "Se solo ci fossi stato per lui, le cose forse avrebbero potuto andare diversamente…"
    "Con coraggio posso considerarmi suo amico?"
    "Non ci sono stato per lui quando più aveva bisogno di me…"

    Digrignai i denti per la frustrazione.

    "Gli amici sono il mio potere"…?


    Che ipocrita del cazzo. Chi voglio prendere in giro?
    Quel Basil è morto tempo fa…

    Mi stavo sfregando con furia la testa rasata in un moto di pura rabbia e frustrazione, quando la mia attenzione fu attirata da un cane randagio nero.
    Non lo avevo già visto da qualche parte? Tirai fuori il cellulare per controllare l'ora: era ormai quasi mattina, ma il sole doveva ancora sorgere, non c'era pressoché nessuno in piedi a quell'ora in giro per il borgo di Radiant Garden. Ero giunto in quel mondo qualche ora prima, a notte fonda, senza un motivo in particolare: semplicemente non riuscivo a dormire, la mia mente era affollata da mille pensieri, e perciò mi ero alzato per fare una passeggiata, e qualcosa mi aveva spinto a recarmi lì quella notte. Forse era stato proprio il treno di pensieri che mi aveva portato a soffermarmi su Evan e la sua scomparsa, e tutti i sensi di colpa che ne erano conseguiti.
    Speravo solo che stesse bene per lo meno. Era strano che nessuno fosse andato ancora a riprenderlo, ma penso che gli stessero solo lasciando il proprio tempo e i propri spazi, come era giusto che fosse. Sentii il cane ringhiare accanto a me, al punto che mi spaventai, risvegliandomi ancora una volta dai miei pensieri. Da quanto tempo era lì? Cominciava a venirmi il dubbio che mi stesse seguendo da quando ero arrivato a Radiant Garden! Scossi la testa e mi diedi due pacche veloce sulle guance come a volermi dare una svegliata. No, non era possibile! Ero solo un po' troppo paranoico. Era solo un vecchio cane randagio in cerca di cibo facile, ma non avevo nulla da dargli, né ero dell'umore adatto. Di certo non era un cane mutaforma che prendeva le sembianze di un umano fin troppo familiare, no…
    Aspetta cosa-…?!
    - Oh, al diavolo quel vecchio e la sua veggenza! Mi sto annoiando. Quanto a lungo dovrò ancora aspettare?-
    Lo sconosciuto sospirò, seccato.

    Ged?!

    Rimasi a fissare scioccato il mago albino, mentre questo si spolverava con gesti distratti della mano il proprio cappotto nero, ormai non più ricoperto di pelliccia di cane. Dovevo apparire visibilmente confuso da tutta quella situazione, perché dopo l'ennesima occhiata infastidita nei miei confronti si affrettò a darmi una spiegazione.
    - Merlino mi ha detto che saresti arrivato questa notte. "Qualcosa di importante deve accadere a breve. Stagli appresso, avrà bisogno del tuo aiuto."- disse, sospirando seccato ancora una volta. A giudicare dall'imitazione di quel vecchio di cui stava parlando, potevo solo immaginare che quella situazione in cui si era ritrovato non era stata proprio di suo gradimento. A maggior ragione se il mago era stato svegliato nel bel mezzo della notte per questo. Chiunque al suo posto sarebbe stato non poco adirato come minimo. - Il problema di quella sua veggenza è che è sempre così vaga, diamine! Sono certo che in realtà lui abbia già le risposte, semplicemente decida di tenerle per sé per giocare con la mente della altre persone! Vecchio psicopatico e sadico che non è altro…- continuò a lamentarsi, quasi in preda ad un delirio febbrile.
    In effetti, a quel che ricordavo per lo meno, in ogni incontro che avevo avuto con quel mago fino a quel momento, lui non era mai stato di molte parole nei miei confronti. Anzi, ero sinceramente convinto che in realtà mi odiasse. Non sembrava sopportare la mia presenza, come se solo avermi intorno lo irritasse. In questo senso, anche se era solo per lamentarsi, potevo considerare questa notte come un degno miglioramento nel nostro rapporto.
    Anche se quella sequenza di sospiri seccati mi aveva lasciato con più dubbi che risposte. Merlino, il famoso mago delle leggende? Era conosciuto in tutto l'universo, e c'erano voci che avesse insegnato la magia allo stesso Eroe del Keyblade… In che rapporti era Ged con questa leggenda? Era da lui che aveva imparato a diventare un vecchio cane rognoso? Ma soprattutto, quel vecchio riusciva a prevedere il futuro prima ancora che accada? E in che senso avrei avuto bisogno dell'aiuto di quel mago piromane? A me lui fa paura! Più ci sto lontano e meglio è!
    Fu durante questo ennesimo treno di pensieri, che la luce finalmente filtrò attraverso i tetti e gli edifici di Radiant Garden, tingendo i soffici e candidi capelli di Ged di un rosso-arancio che in effetti ben si associava al mago del fuoco.

    L'alba.

    Come quella volta due settimane fa, prima di finire in quella bizzarra avventura a Camelot, il mio Keyblade comparve da solo nella mia mano, come animato da vita propria. Ironico, considerando il suo aspetto malandato, sbiadito e a tratti quasi ossidato, come se si stesse preparando ad una qualche muta, una metamorfosi che però né la Chiave né il Portatore avrebbero potuto prevedere quando sarebbe avvenuta. Il mio braccio si alzò, guidato dall'arma. Puntato davanti a me stavolta non si aprì un varco extra-dimensionale, bensì un varco di luce. Qualcosa di davvero inusuale. Un nome mi salì alle labbra, un nome che però nelle mie condizioni non potevo pronunciare.
    -… Evan.- mi voltai, sorpreso che persino Ged avesse avuto quell'intuizione. Non doveva affatto essere un caso. - Quella vecchia volpe… In effetti non aveva specificato che fossi proprio tu la persona ad avere bisogno del mio aiuto.- aveva espresso con una mezza risata tra il seccato ed il divertito, mentre si metteva una mano tra i capelli. Ogni tanto era difficile capire le emozioni di quel mago, né tanto meno capire quando fosse sincero oppure no. Forse era solo sollevato che qualcosa si fosse messo davvero in moto, dopo tutto quell'aspettare? In ogni caso, su questo quel Merlino aveva ragione: Evan aveva bisogno del nostro aiuto.
    Inconsciamente feci un passo indietro.
    Non sapevo nemmeno cosa mi aspettasse oltre quel varco di luce, eppure una paura primordiale si era presa possesso di me per un istante. Di nuovo quei pensieri intrusivi si fecero largo nella mia mente.
    Qualunque cosa avrei fatto, non sarebbe mai stata abbastanza.
    Non ero ancora pronto, né lo sarei mai stato.
    Non ce l'avrei mai fatta.


    Ged sospirò, seccato.

    - Vedi di darti una mossa, ragazzino. Né io né Evan abbiamo tutta la giornata davanti per aspettare i tuoi comodi.- mi spronò in modo brusco, evidentemente infastidito. Non mi sopportava, ne ero certo, questo avvalorava solo la mia ipotesi.
    E nonostante tutto, non riuscivo a muovere un passo.
    - E una volta d'altra parte, vedi di non cacciarti nei guai ogni due secondi come a Midgar. Siamo qui per prestare soccorso al Comandante, non per complicargli la vita ulteriormente. Vedi di ricordartelo, ci siamo intesi?- sentenziò con stizza. Quella lingua sapeva ferire più dei suoi incantesimi, tuttavia qualcosa non tornava…
    Midgar…? Lo squadrai ancora una volta, confuso.
    - Non hai ancora recuperato la memoria…? Bah, poco importa! Ciò che intendevo dire è… Ah, lasciamo perdere.- vidi il mago chiudere gli occhi e portarsi una mano al setto nasale, come di chi non ne è può più e tenta invano di massaggiare via lo stress, prima che l'ennesimo crollo nervoso lo colga. - Guarda te se mi tocca fare il Maestro anche fuori dal mio orario di lavoro.-
    Sospirò, seccato.
    Una bastonata improvvisa mi colpì la schiena in modo totalmente inaspettato. La sensazione di apnea svanì, ed il dolore alla schiena mi costrinse a tornare nel presente, nel mio corpo, e non più nella mia mente.
    - Schiena dritta, petto in fuori, spalle e gambe rilassate. Respira. E sistema quella postura! Non hai affatto l'aria di un potente Keyblader ora come ora…- le sue parole mi piovvero addosso come una cascata impetuosa, senza nessun tatto né nessuna pietà. Critico e diretto, incurante di come questo potesse farmi sentire. - E quel pezzo di ferraglia rovinata sarebbe il Keyblade di cui tanto vi vantate? Non riusciresti a tagliarci una fetta di pane in quello stato, come credi di riuscire a falciare un qualche Heartless?- c'era un particolare risentimento nella sua voce ogni volta che pronunciava una qualunque parola collegata al Keyblade. Onestamente non ne capivo il motivo, sapevo solo che la sua predica ora come ora era la peggiore a cui avessi mai assistito, e mi stava solo aiutando a sentirmi ancora più uno schifo. Spero che quel mostro non abbia mai dei figli, ho paura per i traumi che potrebbe causare loro…
    - In battaglia fai troppi movimenti inutili, ma soprattutto agisci troppo impulsivamente. So per certo che non sei stupido, a furia di insegnare so riconoscere chi è idiota per davvero e chi fa solo finta. Fermati a riflettere ogni tanto, ed agisci di conseguenza.- continuò ad incalzarmi, severo e flemmatico. Non potei far altro che annuire in silenzio. Mandai giù il groppo in gola che mi si era formato. Non avevo realizzato di aver iniziato a sudare freddo.
    - Si tratta di un blocco mentale? Diamine, e cosa ti aspetti?- sbottò, come se stesse chiarendo l'ovvio - Sei solo un ragazzino gettato ingiustamente in pasto ad una guerra di cui non avrebbe mai dovuto far parte in primo luogo. Una persona della tua età non dovrebbe vivere sulla propria pelle questo genere di cose, né tantomeno dover portare il peso di una simile responsabilità! Sfido chiunque a non impazzire!- corrucciai la fronte, visibilmente confuso dal cambio di direzione inaspettato. Perché le sue parole sembravano prendere una piega quasi di supporto, ma il suo modo di esprimerle rimaneva comunque fin troppo diretto e violento. Perché era arrabbiato con me…? - Insomma, ciò che sto cercando di dire è… Sii più comprensivo, ma soprattutto sii più paziente con te stesso, "idiota".- sospirò, seccato. Si massaggiava la tempia, come se davvero la sua pazienza stesse giungendo al limite. Ingoiai a vuoto, di nuovo. - Non aver paura di commettere errori. Solo gli stupidi li temono. Gli errori vanno accolti come parte del processo di crescita ed evoluzione. L'importante è non fermarsi. Impara da essi e va' avanti.- il suo tono di voce sembrava sempre più sfinito. Un'altra bastonata di pura stizza mi colse in piena testa. Avrei avuto un bernoccolo di lì a breve - E mostra a te stesso un po' di rispetto! Pensa a tutta la strada che hai fatto fino ad ora. Sei o non sei il Keyblader che è riuscito a ferire Fastus in persona?- ed anche nel pronunciare quelle parole, potevo percepire un certo disgusto e fastidio nella sua voce, come di chi a fatica nasconde il proprio dissenso. Se avevo ben inquadrato il mago, lui doveva pensarla alla stessa stregua del Comandante, e forse solo la sua scarsa pazienza mi stava salvando dal subire l'ennesima strigliata su quanto quel piano fosse stato avventato e stupido.
    Eppure, per quanto pronunciate dalla peggior persona che mai mi potessi augurare per simili discorsi… le sue parole avevano senso.

    G-Grazie…?

    Non che avessi davvero il tempo di lasciare sedimentare quelle parole all'interno del mio animo per poterle assimilare appieno. Ci avrei riflettuto con calma più avanti, per il momento Evan aveva la priorità. E il mago ormai era evidentemente spazientito. Se mai fossi riuscito a recuperare la voce oppure a farmi riparare il Voice Glove, avrei assolutamente dovuto dire a Ged di… evitare di fare lo psicologo come lavoro. Parlare con le persone non era affatto il suo forte, nonostante la buona intenzione.
    Udii ancora il suo sospirò, più seccato che mai.
    - Ed ora andiamo, ché voglio solo concludere questa faccenda il prima possibile così posso tornare a casa a dormire e godermi il resto della mia giornata di riposo in pace.- disse, alzando gli occhi al cielo, ed addentrandosi nel varco di luce con la stessa voglia di vivere di un impiegato giapponese che si appresta ad iniziare la settimana di lavoro più infernale della propria vita. Dovevo ammettere che mi piaceva il Ged scorbutico in piena carenza di sonno. Mentre si addentrava nella luce potei giurare di sentirlo borbottare con voce da vecchio: "Non c'è niente di più insopportabile di vedere del potenziale andare sprecato!" ed ancora "Finirò per assomigliare a quel vecchio svampito, di questo passo.", ed altre lamentele su quella linea.



    Atterrammo su del ghiaccio…?
    La sensazione era molto simile a quella che avevo provato nella Battaglia di Radiant Garden risalente a circa un anno prima, per quanto la situazione al momento fosse diversa. E forse ben peggiore. Osservai il disastro e il caos tutt'intorno, ed un Maelstrom di Heartless in lontananza.
    Di Evan però… ancora nessuna traccia.

    Basil & Ged entrano in azione. Son troppo stanco, non ho dormito e fra un'ora devo uscire di casa a prendere il treno. Immagino rileggerò con più calma più tardi.
     
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    Il Buoi oltre la Siepe

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    Vagava per un mondo oscuro terrificante,un incubo senza fine di cui non era il padrone ne controllava. Non importava cosa facesse perché era bloccato in un sonno da cui non poteva svegliarsi, costretto ad osservare tutto da occhi che non poteva chiudere. E poi dopo secoli e secoli, aveva finalmente visto la luce. Era arrivata sottoforma di quattro salvatori, guidati da lei - colei che aveva aspettato senza nemmeno saperlo da così tanto tempo, la sua liberatrice... e la sua assassina. Ma Eileen Walker non lo aveva ucciso, non aveva posto fine alle sue sofferenze per salvare l'universo, né aveva sacrificato quest'ultimo o se stessa per aiutarlo. Aveva invece trovato una terza soluzione e, pochi attimi dopo, anche Noctis come tutti gli altri aveva potuto vedere la luce del sole.
    Radiant Garden era spettacolare, e allo stesso tempo così vuota e triste. Non perché fosse in guerra ma perché semplicemente era così diversa. I tetti erano del colore sbagliato, le voci avevano suoni diversi. Le persone erano... strane. Avevano provato a capire cosa fossero, ma una veloce conferma da parte di Cor e Montblanc che a quanto pare gli unico Unversed che conoscevano sembrava essere Fastus in persona aveva fatto loro capire che si trovavano davanti a qualcosa di completamente nuovo. Non erano soltanto gli ultimi Dandelion rimasti. Gli ultimi Keyblader del loro tempo, gli ultimi abitanti di Daybreak Town, gli ultimi Lumines.
    Accanto a lui, Prompto giocherellava con la macchina fotografica che gli era stata data. Un passo avanti enorme rispetto a ciò che avevano avuto nel passato, e con disperazione nel cuore Noctis si chiedeva sempre se con essa, avrebbero potuto conservare un ricordo molto più vivido di tutte le persone che avevano perso.
    "Noct, Noct, guarda questo tramonto!" Esclamo' Prompto, mostrandogli la fotocamera. Sorrideva, ma anche lui non stava bene: l'unico motivo per cui sembrava che non fosse successo nulla era perché il ragazzo cercava di rallegrare lui.
    "Bella..." Sorrise debolmente Noctis, guardando la fotografia. Non era di certo una menzogna.
    "E questo invece, è il dolce di quel Cafe' dietro i dormitori! Qui c'è quello strano fiore blu che abbiamo visto ieri e...oh, qui c'è Marche che quasi si da fuoco ai capelli durante una lezione di Ged! Ha rischiato di diventare pelato..."
    Ma Noctis si concentro' su Ged, presente nella foto con le mani incrociate e un'espressione seccata. Lui, la vita, gliel'aveva aiutata a salvare due volte, eppure non l'aveva rivisto. Nonostante fosse a Radiant Garden, si era ripreso da poco e non aveva potuto partecipare a nessuna lezione. Non aveva rivisto più ne lui, né Fate, né Evan. Il ragazzino si stava allenando lontano da Radiant Garden, mentre Evan... non sapeva dove fosse. In missione segreta, dicevano tutti, ma Eileen aveva sempre una faccia così dura quando lo diceva... Noctis aveva in realtà paura che gli fosse successo qualcosa. Ma glielo avrebbero detto, se fosse stato male, no? O lo avrebbe sentito... quel giorno, senza volerlo, erano rimasti legati irrimediabilmente...
    E poi, lo senti' davvero. Un sussulto al cuore che lo fece alzare di scatto, spaventando Prompto e quasi facendolo cadere dal letto. Ignoro' il "welp" del ragazzo, per osservare il portale apritosi nella sua stanza, portandosi una mano al petto. "Evan..." mormoro.
    "Chi? Gallaway? Che succede?" Esclamo' Prompto, allarmato. "Noctis?"
    Ma lui si era già alzato - lo poteva percepire. Non sapeva cosa stesse succedendo, né perché fosse stato chiamato, ma sapeva che Evan era in pericolo. Era successo qualcosa, e Noctis... non poteva rimanere con le mani in mano. Ancora un po' dolorante e debole, ma guarito, era pronto a seguire quel richiamo. Evan lo aveva salvato. "Adesso tocca a me..."
    Ignorando tutto, si getto' dentro.

    Atterro' quasi scivolando su una lastra di ghiaccio in mezzo a una tempesta, e per un attimo boccheggio'. Non aveva mai visto l'oceano prima d'ora, ne aveva solo sentito parlare, ma sicuramente non lo aveva visto... ghiacciato! Rabbrividi', portandosi le mani alle braccia nel tentativo di scaldarle.
    "Brrrr! Ma qui si gela!!" Esclamo' una voce familiare dietro di lui, e Noctis si giro'di scatto.
    "Prompto?? Che ci fai qui??"
    "Ma scusa, pensi che lasci il mio- m-migliore amico lanciarsi in un vortale sconosciuto così, senza fare qualcosa??? E poi il Comandante Gallaway ed Eileen hanno salvato anche me, quindi non rimango di certo a gua- OMMIEIDEI COS'È QUELLO?!"
    L'urlo inquieto di Prompto lo fece voltare di scatto - e a vedere ciò che si trovava davanti a loro strabuzzo' gli occhi. "Che cazzo?!?!" Si lasciò sfuggire, a vedere di cosa fosse davvero composta la tempesta davanti a loro.
    "M-ma quelli sono-"
    "Heartless." Confermo' Noctis, stringendo i denti ed evocando il suo Keyblade. Si sentiva ancora debole dalle ferite, ed il sonno lungo millenni non aveva aiutato ne lui ne Prompto, ma ormai erano in ballo. Pian piano gli Heartless arrivarono da loro, e puntatono sopratutto a lui - attirati dal Keyblade esattamente come ne erano terrorizzati, queste cose non cambiavano mai.
    Anche Prompto aveva evocato la sua arma - una nuova pistola che gli avevano commissionato a Radiant Garden. Insieme cominciarono a puntare a tutti gli Shadow che arrivarono loro addosso, ritrovandosi quasi a danzare insieme, uniti come se non fosse passato neanche un minuto dall'ultima volta che avevano combattuto insieme.
    Fra una falciata di Keyblade ed un colpo di pistola, si resero conto che c'erano altre figure che combattevano poco distanti da loro. "C-comandante!" Esclamo', sorpreso, Prompto, mentre sparava a tre Shadow in una rapida sequenza di colpi. "S-signorina Eileen! Che sta succedendo?!"
    "Eileen, dove- e levati, Heartless del ca- dov'è Evan?" Chiamo' Noctis, preoccupato.
     
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    Il cavaliere della luce

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    Eileen si girava pigramente sotto le lenzuola godendosi una bella notte di sonno come non ne aveva da due settimane. Pitioss infatti aveva finalmente smesso di darle il tormento, dandogli la possibilità di tornare a dormire beatamente. Infatti da quado era tornata a Radiat Garden non era riuscita a dormire serenamente, venendo costretta a vivere incubi su incubi a causa di Pitioss che sembrava aver mantenuto un legame psichico con lei. Ovviamente c'erano altre cose che non la facevano stare bene come il fatto che Evan l'aveva lasciata a comandare l'esercito al suo posto, Gilbert che si era allontanato molto dopo la morte di Yuki e ovviamente Nate che chiedeva piangendo dove fosse il suo papà. Ovviamente in quel momento lei non potte far altro che chiudersi totalmente sul lavoro di nuovo comandante, passando intere mattine e notti a lavorare incessantemente per evitare di dormire. Aiutandosi grazie a caffe energy drink e pastiche al fosforo. Non era strano che ad un certo punto fosse letteralmente crollata a terra per la fatica e lo stress. Però in quel momento fece un sogno diverso, sogno di combattere contro Pitioss al fianco di tantissime persone tra qui Gilbert e Evan. Liberandola finalmente dal suo legame con Pitioss. Ovviamente era tornata a dormire con non poco timore, ma alla fine crollava sempre dalla stanchezza. Come era successo quella notte. Tornata infatti a casa dopo essersi rigirata un po' nel letto inizio subito a dormire beata. Peccato che poche ore dopo senti un pianto venire dall'altra stanza.
    - Kaito sta di nuovo piangendo di nuovo? - Aveva chiesto Eileen al fratello che prese neonato tra le braccia, che dopo poco ricomincio a dormire. Anche Gilbert come lei sembrava stanco occupandosi da solo dei gemelli, ma la ragazza non poteva non notare il sorriso del fratello mentre cullava il bambino. Era stanco certo, ma era incredibilmente felice di tenerlo stretto a se.
    - Scusa se ti ha svegliata. Gli ho dato da mangiare e l'ho cambiato, ma piange sempre anche se si calma quando lo prendo imbraccio. - Aveva detto in risposta Gilbert scusandosi con la sorella che in tutta risposta guardo l'orario notando che non era poi cosi presto. Anzi a breve sarebbe dovuta tornare a lavoro. Stessa cosa Gilbert ovviamente anche se farlo staccare dai gemelli era sempre una fatica.
    - Tranquillo! Tanto tra poco devo tornare in ufficio. Almeno Cassandra è tranquilla. Shyvanna invece? - Aveva chiesto dando un bacio alle guance di Kaito che sembro sorridere per un attimo a quel contatto. Non poteva non pensare che fosse adorabile, come lo era la sua gemellina in fondo. Beh, era proprio da dirlo i suoi nipotini non potevano venire brutti nemmeno per scherzo.
    - Sta ancora dormendo. Ci vogliono le cannonate per svegliarla. Comunque io porto i gemelli a fare delle visite...sai per capire quanto so come noi due. - Aveva detto in risposta Gilbert mettendo Kaito di nuovo nella culla prima di iniziare a vestirsi. Ovviamente Eileen capi a cosa il fratello si stava riferendo. Voleva sapere se le modifiche genetiche fatte dal padre a lui e lei potessero essere ereditarie. Una cosa che interessava scoprire anche lei ovviamente. Non era detto che in futuro avrebbe avuto anche lei dei figli oltre Nate si intende, ma non sarebbe stato un grosso problema alla fine. Alla fine le modifiche fatte dal padre erano state fatte per perfezionare e rendere più sani i loro corpi. In teoria sarebbe stato un bene se anche loro sarebbero stati come loro, tralasciando che avrebbero rappresentato il ricordo degli orrori causati da Viktor Walker come lo erano loro due.
    - Ok, fammi sapere cosa ti dicono. Io vado a lavoro sono piena di scartoffie da dover compilare. - Aveva detto al fratello con un sospiro seccato prima di andarsi a sistemare anche lei. Alla fine i due Walker si diviserò e torearono alle loro mansioni. Eileen torno a lavoro e Gilbert si occupo dei gemelli prima di lasciarli alla nursery sempre con un po' di dubbio. Entrambi però ebbero una strana sensazione ad un certo punto.
    - Evan? -Avevano detto i due sentendo la sua chiamata e non capendo bene quello che stava succedendo. Era in pericolo? Si chiesero per un attimo. Sapendo che potevano arrivare dove si trovava lui, se lo avrebbero voluto davvero e ovviamente cosi fecero. In fondo come potevano rifiutare di aiutarlo. Aveva lasciato li Eileen da sola e anche Nate, ma alla fine era una persona molto importante per entrambi e non potevano nemmeno pensare di abbandonarlo in un momento di bisogno. Infatti all'improvviso entrambi sparirono prima di ricomparire a Port Royal, durante una battaglia a cui stava partecipando un sacco di gente a loro familiare. Si accorsero dopo alcuni secondi che erano l'uno di fianco all'altro, ma non avevano avuto bisogno di spiegazioni per capire perché entrambi erano li. Eileen si chiese cosa diavolo ci facevano altre due persone li nello specifico.
    - Cosa ci fate voi due qui?! - Aveva chiesto a Noctis quasi rabbiosa nel vederlo la in quelle condizione, certo per aiutare e glie n'era davvero grata. Però non poteva pensar che fosse li a combattere in quelle condizioni. In più non sapeva come rispondere alle sue domande. Nemmeno lei sapeva dove fosse finto Evan essendo appena arrivata, senza contare che era più occupata a scacciare gli Heartless che subito erano partiti all'attacco.
    - Sono certo spunterà! Noi dobbiamo occuparci di questi qui però! - Aveva detto Gilbert ovviamente riferendosi alla marea di Heartless, che inizio a falciare con il suo Keyblade. Ovviamente seguito da Eileen che però con gli occhi continuava a cercare Evan. In quel momento prese un profondo respiro prima di evocare l'armatura seguita da Gilbert, per poi iniziare a combatter con maggior ferocia.
     
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    In un certo senso, si poteva dire che questo era esattamente ciò che stava cercando. Ciò per cui era partito da Burmesia, tanti anni or sono. Ciò per cui combatteva strenuamente, desideroso e bramoso tanto di rafforzarsi quanto di aiutare chiunque ne avesse bisogno. E con l’ennesimo fendente del suo Artiglio di Drago, un manipolo di Shadow venne spazzato via come polvere al vento – un paio nell’infinita marea che sembrava non terminare mai.
    - Ouff. Ouff. AVANTI! WHO’S NEXT!? -
    Stanco, graffiato e malconcio in ogni punto, indolenzito per le numerose rigenerazioni avute dalle proprie magie e tecniche… ed ancora in piedi a combattere, con un ghigno appuntito e sfrontato che mai abbandonava il suo muso, anche innanzi ad una vera e propria guerra.

    Come era giunto a tutto questo? L’ultima settimana di Kurama è stata fra le più movimentate della sua vita, tanto da aver superato il massacrante regime d’addestramento da Dragoon con cui è cresciuto e da metterlo a dura prova, su ogni fronte. L’apparizione di Dremurr e la chiamata al Castello Disney lo aveva portato a lottare fra le rive del tempo, sfidando apertamente tanto l’atto di Fastus quanto il destino stesso pur di riuscir a riportare la luce in quel mondo. Al suo ritorno a Port Royal, subito dopo, il tempo per riposare era stato poco e prezioso, prima di adempiere alla promessa fatta ad Evan e di gettarsi di nuovo nella mischia, questa volta per liberare i prigionieri della Bastiglia e per salvarli dal destino crudele dell'impiccagione; per sua fortuna, non aveva mai avuto una politica di “non interferenza” nei luoghi che visitava, dunque lo fece a cuor leggero e, di nuovo, con un sorriso che mai abbondava la sua espressione, anche nel tramortire guardie o nell’assicurarsi che le persone potessero ritrovare fiducia e speranza nel futuro. Ed infine, gli ultimi giorni prima del disastro li aveva passati direttamente per mare, al fianco di Sarah Fortune e a bordo della Bella Signora, ad aiutare sia la ciurma che ad assicurarsi che gli oramai ex-prigionieri potessero lasciare in tutta sicurezza il porto.
    Era diventato praticamente un Pirata, e la cosa riusciva persino a divertirlo e a rilassarlo, paradossalmente! Tanto da non essersi fatto problemi a prenderla un pizzico più leggera ed anche ad ammiccare al capitano stesso, sfruttando ogni occasione buona per dar sfoggio del proprio lato più “volpesco” e sbarazzino.
    Doveva probabilmente terminare li, la sua partecipazione in tutta quella vicenda… ma l’improvvisa e inesorabile comparsa del Maelstrom oscuro cambiò tutto, gettandoli in una vera e propria guerra da cui non sapeva come spuntarla, non nelle loro attuali condizioni.

    Da quando le prime ombre invasero Port Royal e la nave, Kurama non aveva smesso di combattere, senza concedersi tregua o riposo alcuno. Decine e decine di Heartless, dalle infide ombre fino a quelli più grossi e pericolosi vennero passati a fil di lancia, uno ad uno, dando fondo ad ogni singola risorsa a propria disposizione pur di non cedere il ritmo o per non lasciar che qualche civile innocente rischiasse di perdere il cuore innanzi a quelle bestie fameliche. Li aveva respinti sul vascello, li aveva respinti a terra e stava continuando a farlo, anche su quella lastra di ghiaccio che stava dando loro quanto più tempo prezioso possibile. Era partito dall’altra parte della barricata dopotutto, per dar tempo a tutti di tornare a riva e allontanarsi dal fulcro degli scontri – e questo significava che doveva infine sorpassare la barriera una volta fatto ciò, oltre il fronte di nemici oscuri per poter tornare al fianco dei proprio alleati.
    Ed era li in quel momento, a sferzare la sua arma avvolta quasi costantemente dalle spire del Vento, l’elemento che più gli era vicino assieme alla Luce, falcidiando qualunque cosa si parasse innanzi al suo cammino. Shadow, Soldati, Pirati, ogni genere di mostruosità concepita dal nero reame - spazzati e scacciati dalla sua piccola tempesta personale, saltellando di continuo da punto all’altro dando sfoggio della più classica ed efficace delle sue tecniche, il Jump dei Dragoon. Agilità, velocità, costante elusione e affondi ogni volta decisi e letali: era l’unico metodo che aveva per sopravvivere, per non lasciarsi travolgere da un momento all’altro dall’infinita marea di mostri che lo circondava.
    E per quanto tutto questo stava iniziando ad essere davvero proibitivo per lui, tanto che i muscoli bruciavano, il fiatone era sempre più intenso la vista iniziava pian piano ad appannarsi… riusciva ancora a mostrar un ghigno sfacciato sulla sua espressione, senza che un briciolo di timore o paura lo deturpasse. Come ci riusciva? Come trovava costantemente volontà e desiderio di andare avanti, nonostante la lotta apparentemente impossibile che stava vivendo?

    - Quando senti che stai per raggiungere il tuo limite, ricorda per cosa stai combattendo. Ricorda per cosa stringi i pugni e continui a sorridere, Kurama. -
    Le parole di Cynder era risuonavano chiare in lei, oggi più che mai.
    Aveva paura? Si, come tutti. Ma lo nascondeva con un ampio sorriso, per ingannare il terrore dentro di sé.
    Voleva solo fuggire da li? Istintivamente si, la volpe opportunista in lui sembrava gridarlo costantemente, ma non era questo ciò che desiderava.
    Ciò che desiderava non era nemmeno qualcosa di egoistico o personale, non del tutto almeno: la gloria in guerra era qualcosa che aveva assorbito dalla propria patria, dalla propria gente, riuscendo persino a mostrare frenesia e divertimento in alcuni frangenti, specialmente nei momenti di breve e fragile vittoria. Ma tutto questo era affiancato dall’ardente augurio di rivedere compagni, amici ed alleati… sorridere a loro volta, lontani dai mali e dall’oscurità che quel giorno attanagliava Port Royal. Morgana, Nines, Regulus… Evan: erano li, a lottare anche loro, lo sapeva perfettamente… e con che volto si sarebbe ripresentato, se fosse fuggito innanzi ad una sfida del genere?
    - Heh, dovete colpire più forte di così per fermarmi! -

    Non lo avrebbe mai fatto. In quel chaos totale, l’ultimo e più grande salto era per evitare la barricata di esplosioni dei Bariragno, tornando inesorabilmente vicino al ghiaccio. Ne era sfuggito inerme da quel fragore, pronto ad impugnar di nuovo l’arma e a farsi avanti… quando vide in lontananza il disastroso volo proprio di Evan Gallway, alle prese con uno strano nemico che mai aveva visto finora. Volle fin da subito aiutarlo e sostenerlo, ma la nuova ondata di ombre lo stava rallentando, lo aveva trattenuto ancora ed ancora… finché non fu troppo tardi, momento in cui lo vide inesorabilmente sprofondare nelle acque sottostanti.
    - EVAN!! -
    Non aveva ancora un legame così forte da risentire il suo richiamo, se non come leggero sussurro che sospirava al suo istinto… ma non ne aveva bisogno, non adesso. Era già pronto a correre verso di lui, a saltare e spazzare via le ultime resistente fra il comandante e il burmesiano, pronto a riunirsi alle numerose persone giunte sul posto, sia da altri luoghi che direttamente da altri mondi, cosa che lo stupì non poco. Non vi erano solo Nines e Regulus li, fra i volti conosciuti: anche Gilbert rispose all’appello, cosa che lo rincuorò notevolmente e gli diede quasi nuova energia per proseguire, nonostante l’evidente ansia e preoccupazione che aveva per il Keyblader apparentemente caduto.
    - Oh, what’s this? Rimpatriata come al Confine del tempo? Heh, lovely, ma se non va nessuno mi getto io in acqua a riprenderlo! -
    Si, anche a costo di rovinarsi pelo e pelliccia ovviamente, più di quanto già non lo fossero per tutti gli Heartless abbattuti finora.
     
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    Era di nuovo in quel crocevia. Strade e sentieri si propagavano verso l'infinito sotto un cielo al tramonto, costeggiati dai fitti alberi e dalle alte steppe del Purgatorio. Quel luogo che aveva sognato ancora e ancora anche dopo tanto tempo dal suo ritorno adesso si ergeva davanti a lui, attendendo i suoi passi. Non udiva un suono provenire dagli alberi o dal terreno irto di sassolini dov'era sdraiato. Non c'era un filo d'aria intorno a lui, eppure aveva freddo.
    I suoi vestiti erano gli stessi che indossava prima di venir investito da qualsiasi cosa il Maelstrom avesse usato per colpirlo. Erano intatti, come se li avesse acquistati dal sarto il giorno prima. Si guardò una mano, vedendo che non c'erano ferite né tagli. Era come essere in altro mondo, uno quasi onirico. Era davvero il Purgatorio? Lì era notte, in fondo. Era sotto un cielo all'imbrunire adesso, nubi tinte di blu, viola e rosso si avvicendavano e rincorrevano sotto il suo sguardo.
    Quando si alzò, si rese conto di non essere solo. Davanti a sé c'era la figura che aveva popolato i suoi sogni nelle ultime due settimane, col suo cappotto nero dagli orli argentati, come un capitano pirata basso e mingherlino. Aveva le mani annerite dalla polvere, i suoi abiti erano logori, stinti dal sole e dalle fatiche di una vita in nave, con stivali sdruciti, pantaloni troppo larghi per lui, una consunta maglia bianca. Gli sorrideva, da sotto il suo cappello a tricorno e i castani capelli scompigliati, con il viso tondo e gentile di Sora. Ma ora come allora, percepiva che ci fosse qualcosa in quel Sora che stonava con la figura che aveva imparato a conoscere. Non erano solo i suoi occhi, completamente bianchi e del tutto privi di iride e pupilla, il cui scintillio a tratti era quasi dorato; qualcosa nel suo atteggiamento, nella sua posa stanca e lasciata andare, nella malinconia di quel sorriso, non lasciava spazio ad alcun dubbio su come stessero davvero le cose.
    “Tu non sei Sora.”
    Il ragazzo lo guardò con un'espressione dolce. “Sì. Non sono Sora.” Si avvicinò, ponendo una mano eterea sul suo petto. La sua figura era a tratti sfuggente come un riflesso nell'acqua, tremolante, incerta. “Ma non c'era altro modo per parlare al tuo cuore.”
    Evan non capiva, non ancora. Avrebbe voluto chiedergli perché non prendesse l'aspetto di Eileen o di qualcun altro dei suoi amici, ma sentiva dentro di sé che non sarebbe stata una domanda sensata da fare. Eileen era viva, stava bene. Sora era dentro di lui, nel suo cuore, quel minuscolo e fragile rimasuglio di tutto ciò che era. E forse era stato proprio quello a permettere a quella figura di potergli finalmente parlare, un incontro che, a giudicare dalla sua voce, sembrava attendere da tantissimo.
    “Chi sei?” Domandò Evan, sentendo uno strano tuffo al cuore. “Perché mi sembra di conoscerti...?”
    “Perché ho dormito dentro di te per sei lunghi anni, dal momento in cui abbandonasti questo mondo.” Rispose la figura. Chinò il capo, lasciando andare il suo petto. “Quando io e i miei fratelli attaccammo la tua gente e scoppiò quella battaglia, combattemmo e mi feristi con la tua spada. Uno dei miei fratelli mi salvò attaccandoti... e a quel punto fosti risucchiato in un varco oscuro. Stavo per disperdermi. Ti seguii, legandomi a te per sopravvivere.” Le labbra di Evan si dischiusero in un'espressione sorpresa. Guardò la figura, che diceva di essersi legata a lui, che aveva giocato con l'immagine di Sora per averlo davanti. Pensava di provare orrore e disgusto, pensava di detestarla. Eppure, in cuor suo era come se già sapesse tutto questo, come se la conoscesse già. Nel momento in cui l'aveva vista, aveva capito.
    “Eri tu...” Deglutì Evan a vuoto. “Quella cosa dentro di me... eri tu.”
    La figura annuì gravemente. “Credevo di poterti consumare...” La sua voce tremava. “Ma sei stato più forte di me. Mi hai imprigionato nel tuo cuore. Per sei anni ho dormito, nutrendomi del tuo odio, della tua rabbia, del tuo dolore, senza potermi liberare né morire. Poi... è successo qualcosa.” Si portò una mano al petto, assottigliando le labbra. “Nutrirmi della tua luce è sempre stato doloroso. Ma a un certo punto... è diventato insopportabile.”
    “Il Keyblade.” Realizzò Evan.
    La figura gli sorrise dolcemente. “No, Evan... ti sei innamorato. Il tuo cuore si è riempito d'amore... e ad ogni nuovo legame che stringevi, diventavo sempre più debole.” Proseguì. “Credevo di morire... di tornare nel ciclo. Invece sono rimasto legato a te. A continuare a farti del male anche se non volevo.”
    Evan lo guardò sorpreso. “Non... volevi?”
    “So di essere un Heartless e come tale di non poter pretendere la tua fiducia... ma è così.” Rispose l'altro. “Nel momento in cui sono entrato in contatto col tuo Cuore è stato come...” Chiuse gli occhi, rasserenandosi. “Come riavere indietro i pensieri che la Fame mi aveva sottratto. Dormivo, troppo in profondità per poter capire cosa ti accadesse nel frattempo, ero ignaro del male che ti stavo facendo per continuare a vivere. Non sapevo di starti conducendo alla morte. Ma ho ripreso a pensare. A provare qualcosa al di là della Fame. E dopo sei anni di questa simbiosi, ho temuto per te.”
    “Ti ha spinto questo a cercarmi? Ad apparirmi in sogno?”
    “Sì. Ma per farlo...” La figura si voltò verso un sentiero che portava lontano dal Purgatorio; in lontananza gli sembrava di vedere una spiaggia assolata, una casetta che si ergeva su di essa, piccola e inoffensiva. Evan capì, sentendosi pervaso di un'improvvisa e inspiegabile gioia. “Quando hai portato ciò che rimaneva di Sora in quell'angolo del tuo Cuore, è stata la prima volta che ti ho rivisto dopo anni. Avevo troppa paura di mostrarmi, la tua luce... era accecante. I miei occhi non erano più abituati. Ma Sora mi ha trovato, mi ha detto della tua vita. Mi ha insegnato come raggiungerti, perché potessi finalmente parlare con te.”
    La confusione nella mente di Evan non andava a chiarirsi. “Perché volevi parlarmi?”
    “Perché stai morendo, Evan.” Rispose la figura, tristemente. “Che sia per il Maelstrom o per le cicatrici che l'Oscurità ha infettato, tu morirai. E io... non voglio che succeda.”
    Era ovvio che l'attacco del Maelstrom non lo avesse lasciato illeso. Poteva solo immaginare in che stato versasse il suo vero corpo, mentre lui era precipitato laddove i Keyblader arrivavano alla fine del proprio percorso. Non un aldilà, forse solo il Kingdom Hearts, ma non prima di aver vagato in quella foresta per un tempo indefinito... il pensiero lo spaventava, anche ora che aveva accettato di morire. Fuori dall'ebbrezza della battaglia, lontano dagli occhi di chi sperava e credeva in lui, molta della sua fragilità era tornata. Aveva paura di morire, ma ne aveva accettata l'inevitabilità; ciò non voleva dire che non avrebbe lottato per guadagnarsi fino all'ultimo battito del proprio cuore. Sapeva che la figura con le sembianze di Sora aveva ragione, sapeva che presto o tardi quel sogno sarebbe finito. Eppure, proprio ciò che per anni aveva minacciato di ucciderlo diceva ora di non volere che morisse.
    “Se io morissi saresti libero.” Disse Evan.
    “Lo sarei?” Rispose la figura, con un'espressione colma d'amarezza. “Ogni Heartless è schiavo della Fame. Non farei differenza... sempre che io abbia la forza di assumere una forma fisica. La tua luce non mi ha lasciato indenne in tutti questi anni.” Allungò le mani, stringendo le sue in una presa flebile, appena percettibile. “Ho cercato di raggiungerti, in questi giorni. Ho cercato di parlarti. Questo scambio di dolore deve finire, Evan... per questo sei qui, adesso, un istante prima della fine.”
    Avrebbe dovuto odiarlo. Avrebbe dovuto detestare quella parassitica forma di vita con tutto se stesso. Le sue deturpazioni sulla schiena, quelle orrende cicatrici che grondavano oscurità ad ogni piè sospinto, le notti di dolore insopportabile, gli svenimenti col terrore di non risvegliarsi mai più, tutte le sofferenze degli ultimi sei anni... erano solo colpa di quell'Heartless. Voleva odiare quella creatura, scagliarcisi contro con rabbia anche solo per aver osato prendere l'aspetto di Sora.
    Invece... ne aveva pietà.
    Che motivo aveva di mentire, ormai? Lui sarebbe morto in ogni caso, prima o poi. Lo avrebbe consumato fino all'ultima oncia di energia, forse tramutandolo a propria volta in un Heartless che avrebbe vagato senza meta per anni. Nelle parole di quella persona, nella sua voce tremante, nei suoi occhi privi d'iride ma che sembravano comunicare anni e anni di sofferenze a propria volta, non riusciva a intravedere nemmeno un pallido accenno di menzogna.
    La figura lo guardò negli occhi, con rimorso e determinazione. “Evan... con tutto ciò che rimane delle mie energie, io desidero salvarti.” Evan, sgomento, rimase con le labbra appena dischiuse. “Non oso chiedere il tuo perdono per tutto il male che ti ho fatto... ma voglio fare ammenda, almeno con questo.”
    Le mani di Evan sussultarono in un tremito, sfuggendo alla sua presa. Guardò quella figura incapace di capire anche solo cosa pensare. Era la prima volta che si trovava di fronte a un Heartless, uno vero, e tutto si sarebbe aspettato meno di trovare qualcuno così scosso dal dolore, dal rammarico. Non sapeva neppure che forma avesse realmente, se la ricordasse, non aveva neanche memoria di che aspetto avesse quando lo aveva attaccato; tutto ciò che sapeva era che si trattava di un Heartless. Acerrimo nemico dei Keyblader e dei Somebody, il loro nemico e predatore naturale, la forma di vita più devastante che potesse esistere nell'intero universo. Eppure, quello stesso nemico era disposto a offrirsi in sacrificio per salvare lui, la persona la cui esistenza era votata alla distruzione della sua specie.
    Non si potevano cancellare sei anni di dolore, né si potevano spazzar via le notti insonni, i tormenti, l'angoscia di andare a dormire non sapendo se si sarebbe ancora risvegliato; mai avrebbe dimenticato sei anni di terrore così. Le crisi, le lenzuola sporche di sangue e oscuro liquame, reggere Nate tra le braccia ogni volta come se fosse l'ultima, guardare Eileen con quella costante sensazione di starle dicendo addio. Tutto questo non si poteva eliminare.
    Mai.
    Eppure...
    Tutto ciò che riuscì a fare Evan fu abbracciarlo. Lo strinse a sé per puro istinto, con così tanta forza da farlo sussultare sorpreso. Deglutì a vuota, sentendo un groppo alla gola all'improvviso. Suo, dell'Heartless, di Sora, non aveva importanza. Non lo lasciò, ma lo strinse alla propria spalla, tuffandogli una mano tra i capelli. Era come stringere un fragile miraggio, l'ultimo brandello di un sogno prima del risveglio.
    “In tutti questi anni...” Disse Evan con voce mozzata da emozioni che nemmeno sapeva descrivere. “Ci siamo solo fatti del male a vicenda. Se devi chiedere il mio perdono... allora devo fare altrettanto con te.”
    Non vide gli occhi dell'Heartless spalancarsi per la sorpresa, ma lo senti fremere tra le sue braccia, tremare come se non riuscisse più a trattenere le lacrime. “Sei una brava persona, Evan Gallaway...” Disse con voce rotta. “Proprio come diceva lui. Per questo devo comunque andarmene, perché non voglio più farti del male. Ma prima...” Evan sentì le mani dell'Heartless raggiungergli la schiena. Una sensazione bruciante lo avvolse, ma non era dolorosa; era quasi un sollievo, una pace a lungo attesa. “Voglio lasciarti un dono... le mie ali.
    Gli occhi di Evan si spalancarono. Ogni dolore dalla sua schiena era scomparso.
    Vola, Evan.” Mormorò infine l'Heartless. “Vola... salva tutti.”

    Nelle profondità, un corpo morente ritrovò nuova vita.

    Una luce brillò sotto i ghiacci.

    Sul ghiaccio infuriava la battaglia. Tra le fiamme di Ged e gli attacchi furiosi di Basil, la difesa serrata dei fratelli Walker che lottavano spalla a spalla contro torme di Heartless, Fortune e Norrington che dimenticavano ogni differenza in nome di un bene conune, Port Royal veniva difesa. Nines scivolava sotto l'attacco di un grosso Heartless che riceveva gli attacchi di Kurama; e Richard, e Taylor e gli altri cadetti e ufficiali continuavano a sparare a suon di baionette e sciabolate. I cannoni di Fort Charles, con ogni palla di cannone rimasta, continuavano a tuonare ferocemente contro il colossale nemico. La scomparsa di Evan aveva solo di poco abbassato il morale: l'arrivo di così tanti nuovi alleati, tra guerrieri del passato che combattevano sotto gli occhi di tutti o dove nessuno potesse vederli, un uomo come Regulus che metteva la propria vita in prima linea accanto a dei genitori che si univano ad una grande causa in nome del figlio, aiutati e protetti da uno strano gatto armato di stocco che falciava Heartless, ognuno continuava la propria lotta.
    “STA PER FARLO DI NUOVO!” Ruggì Norrington vedendo il Maelstrom addensarsi; e molti degli Heartless che ancora attaccavano finirono risucchiati con violenza verso il suo corpo mostruoso. Tanti soldati dovettero aggrapparsi a qualcosa, o conficcare le baionette nel ghiaccio; Nines si aggrappò a Kurama nel tentativo di non venir tirato verso il Maelstrom, mentre la sua superficie ribolliva e preparava un altro tremendo attacco come quello che aveva spinto Evan verso il ghiaccio. “ALLONTANATEVI DA LI'! DISPERDETEVI! NON SAPPIAMO DOVE SPARERA' STAVOLTA!” Continuò l'Ammiraglio, tirando via quanti più soldati poteva dalla lastra di ghiaccio di persona. Il Maelstrom aveva perso molti pezzi da quando la battaglia era cominciata, ma stava vincendo per pura forza dei numeri. Con quell'attacco mirava a decretare la fine dello scontro.
    In quel momento, una luce brillò sotto il ghiaccio. Si fece sempre più intensa, potente, il ghiaccio si scioglieva e riempiva di crepe al suo arrivo. Risaliva di fronte a tutti loro, inarrestabile, sgretolando ogni barriera con schiocchi e violenti crepitii, una candela di fronte all'oscurità sempre più gigantesca che si addensava sul Maelstrom.
    Infine, la luce affiorò in una tempesta di schegge luminose come stelle.

    Un uomo in armatura, spada e scudo alla mano, emerse dal ghiaccio con ali d'acciaio, che si dispiegarono mandando bagliori bianchi e azzurri; il Keyblade sfavillava di fuoco bianco, un faro in una tempesta, l'armatura grigia e nera era percorsa da luminescenti strie azzurre. Si stagliava contro il Maelstrom, librandosi su tutti loro; e quando il vorticante ammasso di Heartless sparò il suo attacco l'uomo girò su se stesso e atterrò, flettendo la gamba e puntando lo scudo di fronte a sé.
    Una grande barriera di luce si innalzò a difesa del molo; e l'attacco del Maelstrom si abbatté su di essa con violenza, spingendo all'indietro il Keyblader e riempendo la sua barriera di crepe luminose; ma anche sotto quella pressione titanica, la barriera non cedette. Il getto di energia oscura si dissipò, e l'uomo spalancò le ali. Il suo elmetto si aprì, rivelando il volto di Evan, che si concesse un attimo per ammirare coloro che erano giunti in suo soccorso con un'espressione colma di gratitudine. Ma poté dedicarcisi solo per un attimo.
    “LE MAGIE PIU' POTENTI CHE AVETE! TIRATE!” Gridò, mentre le sue ali brillavano di nuova energia; il suo elmo si ricompose, Evan fletté le gambe per darsi una nuova spinta.
    E assieme al Firaga di Ged, i Thundaga di Eileen e Basil, i Sancta di Noctis e Gilbert e i Blizzara di Prompto e Regulus e i Luxga e Lux di Kurama e Hana, Evan volò. Molte altre magie si levarono da coloro che erano Adepti; La possente spinta delle sue ali frantumò il ghiaccio sotto i suoi piedi, generando una violenta spinta d'aria e schegge cristalline; volò, minuscola luce contro la gigantesca oscurità, un guerriero solo contro uno sciame infinito di Heartless. Ma non era solo, né ora né prima. Non lo sarebbe mai stato.
    Come guidate da una volontà propria, le magie accelerarono, vorticarono, si fusero a lui rendendolo un indistinto, sfavillante bagliore nel cielo di Port Royal; e con una nuova possente spinta che risuonò per l'intera spiaggia come lo sparo di cento cannoni, Evan sfrecciò contro il Maelstrom puntando il Keyblade di fronte a sé.
    Volò, una lancia di luce nelle tenebre, retto da un'energia mai provata prima. Le sentiva tutte accanto a sé, le volontà dei suoi amici, dei suoi compagni, di Sora. Non su di sé, a pesargli come fardello, ma accanto a sostenerlo, spronarlo, guidarlo. Perché finalmente aveva capito a cosa alludesse davvero il suo ruolo, e perché il Keyblade avesse scelto lui tra tutti i guerrieri infinitamente più meritevoli.
    Impattò contro il Maelstrom, sostenendo l'impatto di decine di Heartless che si abbattevano su di lui come onde di marea; ma la luce reggeva, disgregandoli e respingendoli, mentre senza diminuire la velocità continuava ad affondare, lama fiammeggiante, in quella tenebra di occhi dorati e disperazione. Sentiva, nell'ululare del vento e nella furia di quegli artigli, il dolore infinito di chi era stato abbandonato.
    Aliseo rispose al suo comando mentre decine di artigli sfregiavano e dilaniavano la sua armatura. Gridò, con la forza di un mondo che si ribellava alle tenebre, un mondo che aveva risvegliato per la battaglia e che si ergeva al suo fianco come una cosa sola nel suo Keyblade fiammeggiante.
    La lancia affondò nel cuore del Maelstrom. Intorno a lui tutto fu luce; e per un istante, gli parve di vedere decine, centinaia di volti che, infine, avevano trovato la pace.



    Quando la luce si dissipò, stava ancora galleggiando nell'aria. Aliseo era ancora puntato dinanzi a sé, la sua armatura ridotta a pochi brandelli metallici che gli coprivano il corpo. Respirava affannosamente, ansante, le energie del combattimento che lasciavano posto al sollievo di uno scampato pericolo.
    Intorno a sé decine di cuori si innalzavano verso il cielo, brillando di gratitudine che risuonava nel suo petto e in quelli di tutti coloro che erano giunti in suo soccorso. Il Maelstrom non era più, e il ghiaccio andava lentamente sciogliendosi dando il tempo a tutti coloro che c'erano ancora sopra di trovare la terraferma. Il cielo sopra di loro si rischiarava, illuminando ogni cosa dei bagliori dorati dell'alba dei Caraibi. Evan guardò il sole sorto, e gli scappò un sorriso.
    “Bellissimo...” Mormorò, e voltò il capo all'indietro lasciandosi andare ad un sommessa e sollevata risata, la più cristallina e sincera che avesse fatto negli ultimi anni. Una risata priva del peso della morte e piena della magnifica, terrificante sensazione di avere una vita sconosciuta davanti. “Grazie...” mormorò, portandosi una mano al petto. “Grazie di avermi scelto, Sora.”
    Si voltò verso la sua città, e sorrise tristemente. Era acciaccata, danneggiata. Tetti sfondati e muri divelti, e molte erano state le vittime nonostante i loro sforzi, tra pirati e cittadini e soldati allo stesso modo. Erano morti difendendo i loro cari e i loro amati.
    E ce l'avevano fatta, perché Port Royal era salva.
    Per questo, nonostante il cordoglio e le ferite, dal molo si levarono le urla festanti degli abitanti di Port Royal; chi si abbracciava, chi gridava a squarciagola, chi improvvisava danze felici. Evan discese lentamente verso di loro, cercando di raggiungere il ghiaccio ancora solido, ma le ali si disgregarono e cadde goffamente in acqua.
    “EVAN!” Gridò Nines, correndo (forse con qualcun altro) verso di lui; ma Evan si limitò a risalire sul ghiaccio, ridendo.
    “Che bell'entrata eroica!” Esclamò il giovane, rimettendosi in piedi. Avanzò fino a raggiungere punti più sicuri... “Siete venuti così in tanti!” Esclamò, felice. “Gilbert... Ged! Basil! Hana... e voi due non dovreste essere qui.” Aggiunse severo verso Prompto e Noctis. “Ma vi ringrazio. Kurama, sei rimasto... Io... non so nemmeno come sia stato possibile che abbia chiamato tante persone. Ma...”
    Non tardò a vedere lei. L'unica persona che gli mancasse quanto Nate, e quella che aveva chiamato con più forza quando annegava in quell'abisso oceanico. La guardò, con rimorso e gioia insieme, non riuscendo a non sorriderle. “Sei venuta per me...” Disse, trattenendo a stento lacrime di commozione. “'Leen!” Esclamò, e le corse incontro stringendola in un abbraccio disperato. “Meriti di essere furiosa. Meriti di odiarmi con tutta te stessa e merito di essere fulminato a morte mentre sono ancora bagnato.” Disse parlando in fretta, col cuore che gli scalpitava furibondo, le mani che gli tremavano. “Concedimi solo un secondo per abbracciarti... Mi sei mancata così tanto, volevo tornare subito, solo... sono successe tante cose e-”
    “Comandante!”
    Si voltò di scatto verso una voce che aveva sentito solo una volta e di sfuggita: era Felix, il gatto Moschettiere che faceva da maestro a Fate. La sua presenza a Port Royal era sicuramente bizzarra e furono in molti a domandarsi che ci facesse lì un gatto parlante, che andava verso di lui in tutta fretta.
    “Felix, giusto?” Domandò, stranito. “Che succede?”
    Il gatto sembrava spaventato e preoccupato. “Fate... sono catorce dias che non si fa vivo!” Parlava con un forte accento spagnolo. “Mi ha lasciato una lettera dove diceva che sarebbe mancato por un po' e non volevo preoccuparme, è giovane, è un Keyblader! Avrà il suo da fare...!” Si sistemò nervosamente il cappello sul capo. “Ma ha anche detto che se mancava per catorce dias, dovevo venirte a cercare, Comandante! E non sapevo dove! Poi qualcosa mi ha portato qui... como una llamada.”
    “Fate è scomparso da due settimane...?” Ripeté Evan, lasciando a malapena la presa su Eileen. Dentro di sé sentiva il cuore iniziare a scalpitargli di nuovo per una familiare e al contempo nuova sensazione di paura. Gli tornarono in mente le parole che Fate aveva detto quella volta che avevano parlato nel suo ufficio, quella sua mancanza di autoconservazione, quello spirito di sacrificio che non prendeva minimamente a cuore la sua sopravvivenza. E adesso era da qualche parte, da solo, da due settimane? “Dov'è andato, Felix?”
    Il gatto parve sollevato dal suo interesse nella questione. “A salvare quel ragazzo de cui parla siempre... Tobi...” schioccò le dita. “Tobio! Tobio Kageyama!”
    Evan guardò Felix inorridito. Non poteva uscire nulla di buono da una situazione del genere. Due settmane erano già troppe per chiunque! E per quanto Fate fosse forte, non era così esperto da poterlo lasciare in giro da solo a lungo. Se poi era andato a cercare Tobio, non voleva dire che era andato a cercarlo in mezzo alle truppe dello Sparviero? Sentì il terrore invadergli le viscere come acqua ghiacciata. “Felix... aprimi un portale. Concentrati su Fate il più possibile!”
    Tuttavia, questo voleva dire lasciarsi di nuovo indietro parecchie persone. Guardò la sua amata Eileen con un'espressione colpevole, che già diceva tutto su ciò che stava per chiederle. L'avrebbe presa delicatamente per le spalle, faticando a guardarla in viso, ma spingendosi a farlo perché l'aveva già abbandonata una volta senza neppure dirglielo. “'Leen, io... devo andare di nuovo.” Disse con voce roca. “Mi dispiace... ma sono l'unico che possa raggiungere Fate abbastanza in fretta volando. Mi hai visto prima contro il Maelstrom! Giuro... giuro che tornerò. Da te e da Nate. E non vi lascerò mai più in quel modo.” Avrebbe poggiato la fronte alla sua, se gliel'avesse concesso. “Perdonami, ti prego... ma so che tu per Fate faresti lo stesso. Non possiamo limitarci a sperare di arrivare in forze! Ti prometto che quando tornerò ti spiegherò tutto quello che è successo qui.” La lasciò andare, e fece qualche passo indietro mentre Felix apriva un portale. “Ti amo, 'Leen! Tornerò prima di quanto immagini!”
    L'armatura lo ricoprì di nuovo: ed Evan corse attraverso il portale, spalancando le ali d'acciaio, tuffandosi in quell'oscurità infinita che pochi osavano valicare. Fate era da qualche parte, doveva solo sperare di percepirlo in qualche modo. Era da pazzi buttarsi alla cieca così, ma se i suoi amici ed Eileen erano riusciti a raggiungerlo, se la sua chiamata era arrivata in qualche modo persino a Felix, forse poteva fare lo stesso alla rovescia. Pregò solo di fare in tempo. E che non fosse ancora successo niente di terribile a nessuno dei due.

    Fate, Tobio. Ovunque siate, aspettatemi.

    Sto arrivando.
     
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